Partire è un po’ morire

Fra 24 ore sarò di nuovo su un aereo, stavolta per andare a passare due settimane di vacanza. E allora perché mi sento tutte queste farfalle nello stomaco?

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È una giornata lenta, oggi, in ufficio. A Roma, il 29 giugno è vacanza e molti colleghi sono via per il ponte. E io stessa sono sul piede di partenza. Domani mi aspetta un aereo che mi porterà, finalmente, in vacanza. Non tornerò online fino al 14 luglio e mi resta ancora oggi per finire le ultime faccende, chiudere una valigia leggerissima e salutare tutti.
La cosa curiosa è che sto cercando di salutare con più cura le persone che conosco su Second Life di quelle reali. Di partire mi capita ormai abbastanza spesso, e ancora più spesso mi succede di non sentire per giorni, settimane e anche mesi persone a cui sono vicina nella vita reale: eppure non mi viene da fare tutte queste telefonate in giro, nemmeno stessi partendo emigrante per un altro continente. Invece, stamattina, sto facendo tutto quel che posso per non lasciare cose in sospeso: vedere per un momento Andromeda, Jelena, Lorella, Lella (non Frough, ma solo perché si sta prendendo una vacanza da Second Life per motivi che un giorno forse potremo raccontare), aggiornare il mio profilo segnalando che non ci sarò per qualche tempo, capire se ci sono questioni in sospeso da affrontare prima di andare offline per quindici giorni.
malesophii_001.jpgMi sono fatta qualche domanda e credo che quest’ansia di avvertire abbia a che fare con la fragilità estrema dei nostri rapporti virtuali. Abbiamo spesso parlato del fatto che su Second Life quando fai log off cessi letteralmente di esistere, e che quindi ogni volta che spegnamo il programma è come se consapevolmente scegliessimo lo shakespeariano non essere… ma in questo caso il punto è il non essere per qualcuno, il terrore di sparire, di lasciare qualche persona sospesa nell’incertezza di dove sei sparita… Esisti ancora? Tornerai online? Quando?
makingof.jpgIn questi giorni sto leggendo un libro interessante sulla nascita del nostro metaverso preferito. Si intitola “The Making of Second Life” ed è scritto da un giornalista che ha seguito i lavori alla Linden Lab fin dall’inizio, dapprima come incaricato degli stessi Linden e poi come blogger specializzato nei mondi virtuali… e una delle cose che mi ha colpita di più fra quello che scrive l’autore è l’importanza che ha, in questo mondo fatto di pixel, la continuità. Su Second Life chiunque può essere bello, giovane e sexy, perché basta comprare gli accessori giusti… ma quello che differenzia le persone è da un lato la capacità creativa (i builder, gli scripter, i designer) oppure la costanza con cui si è rintracciabili online. Con cui, appunto, si esiste. Perché è inevitabile: in un mondo in cui si scompare da un secondo all’altro, in cui non c’è differenza fra quando cade la connessione o manca la luce e quando si fa “quit”, si cerca tutto quello che ci offre almeno un’illusione di stabilità. Si tratti di luoghi oppure, soprattutto, di persone.
Per me, in questo periodo, partire è più difficile perché gli impegni di lavoro mi hanno tenuta a lungo lontana da Second Life e dalle persone a cui tengo – persone a cui, in qualche caso, sono più attaccata che a molte mie conoscenze nella vita reale. Persone che mi piace pensare abbiano bisogno di me quanto io ne ho di loro e che, anche se sanno bene che tutto questo è solo un gioco, sentiranno la mia mancanza.
E quindi, questo post è per salutare e per avvertire chi è interessato a saperlo: parto domani. Anche senza esistere, so che vi penserò, quando prenderò il sole su un’isoletta spartana (uhm… in realtà tecnicamente sarebbe più ateniese… ma, vabbe’, intendevo un’altra cosa) dove so che Internet non arriva manco a piangere in greco. Ma il 14 luglio ritorno e spero, finalmente, di poter recuperare un po’ di tempo virtuale perduto.
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Il peso del dovere

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Ci sono volte che adoro il mio mestiere. E ci sono volte che lo detesto. Anche se il senso del dovere mi costringe a inghiottire l’amarezza e ad andare comunque fino in fondo.

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Qualcuno forse ha riconosciuto al volo il luogo che appare nelle foto qui sopra. Qualcuno avrà capito al volo di chi sia il corpo immobilizzato che, col cuore gonfio di amarezza, sto portando all’interno della stanza.

JelBane_001.jpgJelBane_002.jpgJelBane_004.jpgSiamo a Zhora. A quattrocento metri di altezza. L’entrata della “Processing Area”, il laboratorio dove noi della Kelley Technologies trasformiamo in bane i condannati che se lo sono meritato. E la persona che porto in braccio non è una persona qualsiasi. Si chiama Jelena Kiranov, e mi appartiene da più di un anno.

Fare il bane operator non è un mestiere facile. Non esistono due prigionieri uguali: molti protestano invano la loro innocenza, qualcuno cerca di ribellarsi, altri affrontano il loro destino con una sorta di attonito fatalismo. Il mio lavoro consiste nel traghettarli al di là della soglia, quella in cui, per un tempo limitato ma mai del tutto prevedibile, cesseranno di essere persone e diventeranno bane, per affrontare una vita di solitudine itinerante, con la sola compagnia dell’implacabile Custodian… e del ricordo dei reati che hanno commesso. Ogni banishment è quindi un’operazione delicatissima, sia dal punto di vista chirurgico che da quello psicologico, e richiede da parte mia la massima concentrazione.

Eppure, in tanto tempo che faccio questo lavoro, non mi era mai accaduto di dover sottoporre alla procedura qualcuno che mi apparteneva. Oh, certo, Andromeda Sawson mi aveva dato le chiavi del suo collare prima che la sigillassi nel lattice del banesuit – ma lo era diventata dopo l’incontro preliminare alla procedura, e anche per questo attraversò il suo periodo con leggerezza, velocemente, mentre sia lei che io speravamo di poterci presto abbracciare e vivere quella vita insieme che all’epoca stavamo appena iniziando.

Ma il caso di Jelena è diverso. Il nostro rapporto si è consolidato con ben altre dinamiche, da quell’ormai lontano giorno in cui le feci scattare al collo un collare nuovo di zecca. Sono successe tante cose: Jelena è un tipo irrequieto e non è un segreto che il mio dominio su di lei le abbia consentito di avere qualche schiava personale e anche qualche estemporanea avventuretta da sub, anche se sempre sotto il mio controllo. Ci siamo sempre dette tutto, senza nasconderci nulla, e raccontandoci a voce tutto ciò di cui i log del suo collare non bastavano a tenermi aggiornata.

Ecco perché quando ieri ho aperto la busta con i nomi delle persone che dovevo sottoporre al banishment, credo di essere impallidita. Jelena Kiranov? Proprio lei? Come era possibile? Cosa aveva fatto? E, soprattutto, perché non lo avevo saputo da lei?

jelenaprebane.jpgSono rimasta per un po’ a interrogarmi sul da farsi. Era giusto che fossi proprio io a occuparmene? È vero che viviamo in un paese in cui l’idea stessa di conflitto di interessi è stata fin troppo sdoganata: ma il coinvolgimento personale di un Operatore verso il suo bane è sempre sconsigliabile – un dato di fatto che peraltro ho potuto verificare di persona io stesso al tempo del banishment congiunto di Gloria e Malbert. Un errore che ho commesso e che credo anche di aver pagato con gli interessi. Eppure…

…eppure l’idea di lasciare Jelena nelle mani di qualche altro operatore non mi pareva accettabile. Un bane non può indossare altro che non sia il casco che gli copre il volto annullandone l’identità.

Ma, soprattutto, non può indossare un collare. Nemmeno il mio collare.

Avrei dovuto aprirglielo e non me la sono sentita. Non senza avere, in cambio, almeno il controllo del suo Custodian. Che avrà, ovviamente, lo spy sempre acceso.

stefjelbane_002.jpgE allora sono corsa, prima di poterci pensare su ancora. Ho raggiunto Jelena in un negozio in cui faceva spese chiacchierando allegramente con Nightwish e con la sua amica Antonella Rieko, come se niente fosse. Mi sono avvicinata, senza dire troppe parole perché mi sentivo la gola stretta da qualcosa di invisibile. L’ho ammanettata, imbavagliata, le ho imposto un cappuccio isolante. E l’ho portata quassù, in attesa che un ingegnere della Kelley Tech (la ben nota Green Geary, che ho avuto il brivido di conoscere anche come mio Operatore) provvedesse a farle riempire tutte le cartacce necessarie.

Quando l’ho raggiunta oggi e le ho tolto il bavaglio, Jelena non ha reagito bene. L’ho sentita recriminare, come fanno le persone colpevoli di qualcosa. E l’ho vista ammutolire quando ho rimbeccato tutte le sue insinuazioni… quando è arrivata a dire che si sentiva tradita… come se pensasse che il mio senso della giustizia doveva farsi da parte di fronte al rapporto che ci lega. Come se si illudesse che essere amica e schiava di un Bane Operator ti consenta di farla franca, di non pagare il tuo debito con la società.

stefjelbane_003.jpgstefjelbane_004.jpgHo dovuto rimetterle il bavaglio, anche perché nel frattempo ci aveva raggiunte Stefany McAndrews… una persona che già qualche tempo fa è stata un mio bane e che, per motivi che non tocca a me spiegare, da tempo sentiva il bisogno di tornare nel completo di lattice. Stefany si è accostata al suo secondo banishment docilmente, più con speranza che con rassegnazione, anche se il cuore le batteva così forte che mi pareva di sentirlo. E certo non meritava di trovarsi di fronte a uno scambio di opinioni come quello che, in quel momento, Jelena mi costringeva a sostenere.

Stefany, adesso, è libera di girare il mondo, nella costrizione per lei rassicurante del banesuit. Jelena è ancora assicurata sul lettino dell’operazione, mentre aspettiamo che il Custodian si radichi a fondo nei suoi neuroni. Io so che domattina dovrò completare la procedura e ho il cuore pesante. Anche perché prima di andarmene ho trovato a terra questo fogliettino, che Jelena deve aver scritto fra il momento dell’arresto e quello dell’inizio dell’operazione.

Sono qui inginocchiata alla Kelley Technologies in attesa della mia trasformazione in Bane, c’è un silenzio assordante qui, mi snerva, mi fa desiderare che la procedura inizi.
Sono qui da tanto ormai, le stanze sono vuote e il pavimento di marmo mi raffredda le gambe, cerco di non muovermi per non perdere calore ma poi mi fanno male le ginocchia.

Da ieri l’unica persona che ho visto è una certa Green, un’ingegnere, mi ha squadrata e fatto compilare frettolosamente dei moduli, nemmeno ho avuto il tempo di leggerli.
Liberatorie ha detto… per cosa? La procedura è pericolosa?

Snapshot_002 1.pngNel silenzio comincio a pensare, alle persone che lascerò, ai miei compiti ormai quotidiani, alle mie routines.
Faccio un veloce resoconto e scuoto la testa. Avrò tempo per pensare.
Sorrido fra me e me, un sorriso che ha un che di amaro.

Osservo il monitor dall’altra parte della stanza, scruto per vedere qualche informazione, qualche cosa che mi possa aiutare, qualche nozione, qualche segreto. Nulla, non ci riesco. È troppo lontano.

Rivolgo lo sguardo a terra e nel silenzio percorro le scanalature delle mattonelle con lo sguardo, mentalmente seguo le linee e traccio dei disegni immaginari.

Passa il tempo e mi rivolgo alla porta al mio fianco, quella in cui entrerò per uscirne cambiata, trasformata in Bane, un brivido mi attraversa la schiena.

Mi arrivano dei messaggi, fortunatamente non sono ancora isolata al momento, alcuni sono dolcissimi e mi fanno battere il cuore forte, altri mi feriscono come io probabilmente ho ferito loro facendomi catturare.
Non so che pensare, sono confusa, ma mi aggrappo anche a quei messaggi, come fossero un’ancora a quello che sono ora.

Osservo il mio vestito comprato pochi minuti prima che fossi “prelevata”, mi piace da morire, così Hi-Tech, peccato averlo usato così poco… sospiro. Non ricordo molto del momento della mia cattura, ero in un negozio di abbigliamento, l’arrivo dell’operatrice che mi ha messo un casco, tutti i miei “congegni” in system fail e poi buio, mi sono ritrovata qui in questi laboratori, incatenata.
Armeggio con le mani cercando di attivare il grimaldello elettronico che ho allacciato al polso, un suono sgraziato mi fa capire che è ancora malfunzionante. Dannazione!!!

Mi rassegno…una morsa mi stringe lo stomaco, stavolta non riuscirò a scappare…

Snapshot_001 3.pngRido da sola pensando alla ragazzaccia che sono, doveva capitare prima o poi che venissi arrestata. “era solo questione di tempo” dico a bassa voce fra me e me.
Forse il progetto Banishment mi vorrà cambiare… beh! devo solo stare buona buona per un po di tempo, scontare la pena e tornare alle mie attività. L’importante è non farsi beccare di nuovo, tenere un profilo basso… non potrò essere una Bane per sempre, le mie fidate compari mi attenderanno e ci rimetteremo in carreggiata.
Il coraggio torna in me e mi fa assumere un’espressione più fiera.
Sono di nuovo lucida.
Sono pronta.

Un bavaglio che non mi piace

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A circa un anno e mezzo da una iniziativa analoga, un’altra occasionale violazione alla mia regola di non occuparmi, qui, di questioni che abbiano a che fare con la RL di questo nostro disgraziato paese.

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Stavo per cominciare questo post chiedendo scusa se, una volta tanto, uso questa pagina per manifestare preoccupazione per quello che sta succedendo in Italia. Ho deciso che non sono io quella che dovrebbe scusarsi, ma coloro che distruggono, giorno dopo giorno, quello che resta di buono nel nostro paese.

Non scriverò molto perché non sono che un avatar e, per giunta, con interessi che la maggior parte della gente considererebbe probabilmente devianti. Ho la passione del bondage: mi piace legare ed essere legata, imbavagliare ed essere imbavagliata. Ma il bavaglio che è stato messo ieri all’informazione e alla giustizia è qualcosa che non posso e non voglio tollerare senza almeno esprimere il mio disgusto.

573833231.jpgSono orripilata dalla piega sempre più esplicitamente autoritaria che il regime che ci controlla imprime ogni giorno che passa all’Italia. E mi spaventa molto rendermi conto di come, ieri, sia passato qualcosa di molto peggiore del bavaglio ai blogger contro cui si protestava nel novembre 2008. Non è più “solo” una questione di blog, purtroppo.

Fate attenzione, per favore. Parlo non agli avatar, ma agli agenti che ci stanno dietro. Fate attenzione. Non lasciate che questa porcheria passi sotto silenzio. E che nei prossimi giorni l’Italia parli solo di calcio, come nella canzone di Gaber, mentre qualcuno se la inghiotte intera.