Cannes 2010: “R U There” di David Verbeek

Qualche appunto su un altro film che ho visto nei giorni scorsi al Festival di Cannes e che ha qualcosa a che fare con gli argomenti di cui si parla su queste pagine. Anche se non ci sono corde, né manette, né celle. Con qualche immagine, una volta tanto, che ho catturato nella vita reale.

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Chi mi conosce lo sa: ci tengo un poco all’ortografia e non mi piace affatto quando qualche interlocutore in-world si esprime con abbreviazioni che sarebbero più adatte a una comunicazione via SMS. Naturalmente, come con tutte le regole non fondamentali, sono pronta a passarci sopra quando mi pare e l’eccezione più importante è Andromeda. Mi capita spesso, con lei, non solo di tollerare frasi come “R U @ work” (traduzione: “are you at work”, ossia, “sei al lavoro?”) ma anche di apprezzarle come l’ennesima espressione di quel suo modo di essere così positivo, autoironico, serio senza mai essere serioso. Lo so, sono di parte. Ma dopo tutto – anzi, prima di tutto – la mia Andro resta la mia Andro.

IMG_0129.JPGNon so se sia stato per questo motivo, ma un titolo come “R U There” ha attratto immediatamente la mia attenzione fin da quando ho dato la prima occhiata al programma di Cannes 2010 per cominciare a fare mente locale sui film da tenere d’occhio. Ho fatto quindi il diavolo a quattro e, incastrando per benino gli altri impegni della trasferta, non solo sono riuscita a infilarmi alla proiezione ufficiale del film, alla presenza degli autori, ma anche a scambiare due parole con il regista David Verbeek (un discreto figo, fra l’altro, se posso permettermi – vedere per credere)!

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Non sono una critica cinematografica e non starò a lanciarmi in una spericolata recensione. Dirò solo che “R U There”, anche se magari non riesce a svilupparlo fino in fondo, ha sicuramente il merito di affrontare in modo diretto le implicazioni del  progressivo e forse inesorabile diffondersi della vita virtuale. E di farlo, aggiungo, dimostrando un’esperienza diretta dell’argomento, cosa che lo distingue da tanti film del cavolo in cui i mondi virtuali sono usati come espedienti narrativi per storie avventurose estremamente banali.

ruthere033084.jpgIl protagonista del film è un giocatore professionista di videogiochi sparaspara – quelli, per intenderci, in cui si vede il mondo in soggettiva (o, per chi è familiare con Second Life, in mouselook) e si deve sparare a quasi tutto quello che ci si trova davanti eccettuati i propri compagni di avventura. Il film comincia nel pieno di una ferocissima battaglia, fra le rovine di una città, carrarmati semidistrutti e soldati feroci e abilissimi col mitra – e la cosa singolare è che il protagonista e i suoi colleghi ci vengono descritti come degli atleti, quasi sempre in tuta da ginnastica e, spesso, impegnati in allenamenti fisici piuttosto intensi.

Per partecipare a un torneo importante, il protagonista si reca a Taipei e lì, nel lussuoso albergo in cui viene ospitato fra una battaglia virtuale e un’altra, incrocia una fascinosa escort cinese che accetta di fargli un massaggio a pagamento. Il rapporto fra i due non va oltre, lì per lì, ma lui, affascinato, la ritrova impegnata nel suo lavoro principale (commessa sexy in vetrina una specie di fast food per automobilisti). Una chiacchiera tira l’altra fino a quando lei gli dice che, per rilassarsi, ha l’abitudine di andare su Second Life. E lo invita a raggiungerla.

Guardate il trailer qui sopra per avere un’idea. Il nostro protagonista, su Second Life, ci va con una mimetica da soldato – perché è quello il suo mestiere nel mondo virtuale in cui è abituato a passare gran parte della sua vita. Ma il metaverso della Linden Lab è, per definizione, molto diverso dall’ambiente di uno sparaspara, perché quando ci arrivi non hai alcuna meta prefissata. Ci entri e tutto quel che puoi fare è cominciare a guardarti intorno e a cercare… cosa? Non un nemico da distruggere, non un tesoro da raccogliere… o forse tutto questo ma anche altro. Perché quando nessuno ti dice quello che devi fare tocca solo a te scoprirlo. È qui che il discorso del film si fa intrigante: Second Life come alternativa al mondo del videogioco – una bella capriola se pensiamo che il videogioco, per molti versi, è un’alternativa alla vita reale. Ma che cosa è l’alternativa di un’alternativa?

rutherecoppiaregista.jpgParlando col regista, mi ha colpita una sua osservazione: che di Second Life lui apprezza il silenzio, la solitudine. Qualche mese fa avrei pensato che chi dice così non conosce realmente il nostro piccolo enorme universo elettronico – e forse sotto sotto la penso ancora un po’ così. Ma non bisogna mai dimenticare che, davvero, la cosa meravigliosa di Second Life è proprio questa libertà assoluta di fare ed essere quello che si desidera. C’è qualcuno che costruisce, qualcuno che scripta, altri che vivono avventure e allacciano rapporti complessi e spesso impensabili nella vita reale. Moltissimi preferiscono esplorare, viaggiare, osservare la gente, i luoghi e gli oggetti. Ma c’è sicuramente anche chi ama, semplicemente, restare collegato e, come la protagonista del film, rilassarsi senza fare niente, godendosi il distacco dalla realtà che si prova quando ci si identifica in un avatar.

RUTherepic.jpgMi è capitato spesso di sentire lamentele di gente che si affacciava su Second Life e trovava insopportabile questa mancanza di un fine prestabilito. Ma il metaverso nasconde sensazioni affascinanti anche quando capita di trovarsi soli a esplorare land deserte e apparentemente abbandonate. A me è capitato di riscoprirlo, a molti mesi dai miei primi passi sulla Help Island, durante il mio ultimo banishment, in cui la solitudine era dettata dalla mia situazione: a volte, quell’impressione di trovarmi in una sorta di gigantesco quadro di De Chirico, era davvero ipnotica e rilassante, soprattutto a contrasto con un periodo in cui la RL mi impegna parecchio e mi lascia pochissimi istanti liberi per restare un pochino sola con me stessa. E potrei aggiungere che l’impressione capita di averla anche quando si è in compagnia: a chi non è capitato di trovarsi assieme ad un altro avatar che restava muto a lungo, per scoprire solo più tardi che la persona che gli dava l’anima si era allontanata un attimo dalla tastiera? Nel film, la domanda del titolo ha proprio questo significato: “Ci sei? Sei qui con me, ossia al computer? Oppure hai, come dice Jelena, parcheggiato la pupazza e ti sei fatta assorbire da qualche impegno di RL?”

IMG_0126.JPGIMG_0127.JPG“R U There” non è un capolavoro ma ha un merito indiscutibile: quello di affermare a chiare lettere che Second Life è, dopo tutto, solo un luogo come tanti altri nel quale viviamo la nostra vita – l’unica che abbiamo, l’unica in cui possiamo ridere o piangere, godere o soffrire, o fare tutte queste cose insieme. E il finale del film, un po’ enigmatico, arriva proprio a questa conclusione. Noi siamo quello che siamo, sempre e comunque, sia che indossiamo l’avatar di carne e sangue che ci è stato assegnato dalla natura e dal destino, sia che ci si trasferisca per un poco in un soldato armato di mitra e con una missione da compiere… o in un avatar che vaga di land in land cercando una meta sempre cangiante.

foto 7.jpgAbbiamo più volte parlato qui della famosa Umanità accresciuta e ogni settimana che passa arricchisce l’espressione di nuovi significati. Me ne sto accorgendo da quando, con l’iPhone che mi è stato regalato per il mio compleanno, scopro la possibilità disovrapporre alla vita reale cartelli indicatori galleggianti come mi era capitato finora di vedere solo nella mia vita di avatar… ma anche quando leggo articoli sul modo in cui l’esperienza di una riunione all’interno di Second Life lasci tracce mnemoniche molto, ma molto più forti rispetto a quella di una videoconferenza (se capite l’inglese, andate a leggere questo articolo, segnalatomi da Frough Spad). I mondi virtuali e quello reale sono sempre più strettamente interconnessi e sono convinta che sia solo una questione di tempo prima che le nuove modalità di interazione fra le persone siano viste non più come un gioco più o meno esotico per impallinati del computer ma, semplicemente, come tanti altri strumenti entrati nell’uso quotidiano come il telefono.

ruthere033268.jpgNon so cosa avverrà, allora, a chi come me vive su Second Life quello che non osa o non può vivere nella vita reale ma non immagino scenari particolarmente apocalittici: si tratterà solo di imparare pian piano a convivere con le varie identità e personalità che i nuovi mezzi ci mettono a disposizione. Del resto non è forse già così? Al lavoro ci comportiamo secondo certi codici e regole che a volte possono essere parecchio diversi da quelli che applichiamo a casa – e lo stesso vale, dopo tutto, anche a seconda delle persone che frequentiamo. Con i compagni della pallavolo ci si comporta un po’ diversamente che con le persone con cui andiamo al cinema, o con i nostri familiari, o con i vicini di casa… eppure ciascuno di noi resta sempre se stesso.

liciacisse.jpgIn una chiacchierata di qualche giorno fa, Licia Cisse ha commentato il mio post precedente (quello su “Chatroom”) partendo dalla frase “fai attenzione a quello che desideri perché potresti ottenerlo” e chiosando: “io sono per un ..’fai attenzione a quello che vivi nella tua immaginazione visiva e cinestetica perché la stai già vivendo’..:) “. È vero anche questo. Altro che Second Life.

 

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Cannes 2010: “R U There” di David Verbeekultima modifica: 2010-05-28T15:04:00+02:00da winthorpe
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