[Per chi sa l’inglese] Un documentario da vedere

Solo una veloce segnalazione per avvertire che, per tutta questa settimana, è possibile vedere in streaming un documentario che si promette molto interessante. Su di noi.

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Qualcuno di voi lo sa: negli ultimi mesi la mia presenza su Second Life continua ad essere rara e irregolare. Non c’è da preoccuparsi: è solo che la mia vita reale si è fatta più impegnativa e mi rende difficile trovare il tempo per entrare in-world. Ma non c’è da preoccuparsi per me. Anche se i problemi non mi mancano (mancano a qualcuno, forse?), godo di ottima salute e nel complesso so di potermi considerare ragionevolmente felice e fortunata.

Steve_001.jpgSecond Life, e soprattutto le persone che vi ho conosciuto, mi manca e, appena posso, torno ad entrare. La settimana scorsa ho rispolverato il manuale del Bane Operator per avviare al banishment Jeannie Krovac. Un altro giorno sono entrata per andare a visitare una bizzarra Chiesa della Apple di cui avevo sentito parlare su Twitter – e in qualche modo salutare anche io Steve Jobs, uno dei pochi multimiliardari che sia riuscito a farsi voler bene dalla maggior parte dei suoi clienti. Io uso Macintosh da quando ho cominciato a scrivere sul computer abbandonando la macchina da scrivere (sì, sono così vecchia!) quindi la morte di Jobs un po’ mi ha colpita. E poi ho una carissima amica, più volte citata su queste pagine, che qualche tempo fa ha trovato lavoro proprio presso la Apple.

Selene Wideshining, Franca PoperQuando entro in-world trovo quasi sempre qualche amico con cui parlare o giocare. Qui accanto, una foto di qualche settimana fa scattata quando ho rivisto dopo tanto tempo Selene (Clelia/Frine/Nemesis… eccetera: sapete bene quanti nomi abbia cambiato in questi anni…) e Franca. Queste due ragazze si vogliono bene in un modo forse possibile solo in un mondo virtuale e ogni tanto non so resistere alla tentazione di costringerle a starsi vicine fisicamente sotto il mio controllo. Ho imparato che per vivere Second Life con la massima intensità occorre dedicarvi un po’ di tempo, perché l’illusione e la sospensione dell’incredulità facciano il loro effetto: ma essere parte, sia pure sporadicamente, delle complicatissime relazioni fra Franca e Selene mi permette a volte di riuscire a entrare nel gioco quasi all’istante, anche quando so che riuscirò a restare online solo per una manciata di minuti.

miserie.jpgMa sto, come al solito, divagando, quindi torno a concentrarmi sul motivo di questo post. Lontana da SL, compenso la mancanza seguendo ciò che se ne scrive e dice in giro. Sto leggendo un libro (abbastanza compiaciuto e non entusiasmante… ma magari ne riparliamo quando l’avrò finito) scritto come se fosse opera di un avatar che detesta il suo agente (quello che lui chiama picchiatasti), ma che ha l’ambizione di indagare quell’illusione di immortalità che, forse, cerchiamo nei metaversi. E, soprattutto, mi accingo a vedere un documentario di quasi un’ora e mezzo sui mondi virtuali.

Il titolo, molto bello, è Login 2 Life, una cosa tipo “connettersi alla vita”. E il tema sembra essere soprattutto la possibilità che i mondi virtuali offrono a chi ha qualche difficoltà nel mondo reale. Ne ho parlato già altre volte: su Second Life ho conosciuto parecchie persone bloccate da qualche malattia o da qualche incidente. E sono da sempre convinta che, fino a quando non diventa un’ossessione che distrugge quell’attaccamento alla vita reale che fa parte della nostra natura, una certa misura di fuga nella fantasia sia non solo innocua ma, addirittura, necessaria. 

Perché parlo di questo documentario prima di averlo visto? Perché da oggi, e per una sola settimana, sarà possibile vederlo in streaming sul sito di una TV tedesca che lo ha trasmesso in anteprima proprio ieri, e ci tengo a segnalarlo a chi continua a frequentare queste pagine. Il film è in inglese con sottotitoli in tedesco, ma qualcuno di voi forse sarà in grado di vederlo e apprezzarlo. E poi, magari, e chissà quando, ne riparliamo, ok? Fino ad allora, cercate di stare bene. Io farò lo stesso.

Il link per vedere il film: Login 2 Life

Lezioni di dominazione

Un post che dovevo scrivere tanto tempo fa e che era rimasto nella tastiera fin dal novembre 2009. E che adesso è il momento di tirare fuori per dedicarlo non solo alla persona con cui ne avevo parlato allora, ma a molte. Inclusa la sottoscritta.

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Prima di cominciare a scrivere questo post voglio mettere subito in chiaro qualcosa: sono di nuovo libera. La mia prigionia si è conclusa poco più di 48 ore dopo la mia cattura e cercherò prossimamente di dar conto di come sia andata. Ma prima di farlo, ho deciso che è il momento di scrivere qualcosa su un telefilm che ho visto ormai un bel po’ di tempo fa, a cui avevo accennato già qui e che, nel frattempo, è arrivato persino in Italia.

Immagine 2.pngLa serie si intitola Secret Diary of a Call Girl ma da noi è stata tradotta Diario di una squillo per bene, con una lieve modifica che, una volta tanto, non sa di tradimento. Perché la protagonista della serie, nome d’arte Belle, è effettivamente una brava ragazza – che però ha scelto come mestiere quello della prostituta. Perché? Perché le piace il sesso, prima di tutto, e poi perché le piacciono i soldi. Tutto qui, senza psicologismi, drammi o traumi infantili. Fra l’altro, la serie è tratta dal libro di una signora che inizialmente lo aveva pubblicato sotto forma anonima, ma che a un certo punto ha rivelato in una intervista la sua vera identità dichiarando di aver fatto la ragazza squillo, per quattordici mesi, per pagarsi gli studi e arrivare alla sua professione attuale. Che è quella di ricercatrice scientifica nel settore dell’oncologia.

Di questa serie io ho visto fin qui solo la prima stagione ma mi sento di raccomandarla a chiunque: non è compiaciuta nè particolarmente maliziosa e offre, del sesso a pagamento, una visione leggera e giocosa che va probabilmente presa con le molle… ma ha il merito di affermare il diritto di chiunque a vivere la propria sessualità come preferisce, rifiutando a priori qualsiasi moralismo. In questo campo, nessuno può permettersi di giudicare gli altri e ben venga, se necessario, anche un telefilm a ricordarcelo, visto che un po’ a tutti noi può capitare di pronunciare condanne verso gli altri, salvo poi non accettare volentieri quelle che ci riguardano. Un’altra delle cose che amo di Second Life è che mi ha messa in contatto con una varietà infinita di persone, facendomi scoprire realtà e gusti molto al di là di tutto quello che pensavo di sapere. Per una che, come me, si è sempre piccata di avere una mente abbastanza aperta a quello che non conosceva, posso assicurare che è stata e continua a essere un’esperienza illuminante.

Immagine 1.pngMa torniamo alla serie, che mi ha coinvolta in modo particolare anche per un altro motivo. Forse non tutti sanno che, prima di donarmi le chiavi del suo collare, Andromeda è stata per molto tempo una escort virtuale, e mi ha raccontato di aver messo da parte, in quel modo, una discreta sommetta. Se si aggiunge a questo il suo carattere giocoso e sbarazzino, e il fatto che Billie Piper, la protagonista, le assomigli in modo notevole, forse si può capire il mio interesse. Vedere Secret Diary of a Call Girl era un po’ come assistere a flashback immaginari sulla vita passata di Andro, e un modo per esserle più vicina.

Immagine 4.pngImmagine 5.pngImmagine 6.pngMa sto divagando, perché in questo post voglio occuparmi solo dell’episodio 4 della prima stagione, quello in cui il commercialista di Belle le offre di farsi pagare l’onorario in natura, esprimendo il desiderio di un rapporto di natura sadomaso. Belle, abituata in genere a richieste più tradizionali, va a parlare con una Mistress professionista per farsi dare qualche consiglio professionale su come comportarsi. E scopre per la prima volta quanto la fantasia della sottomissione possa avere su alcune persone un fascino irresistibile. Anche se, come scopre con sorpresa, il sesso è escluso a priori.

Traduco in breve per chi non capisse l’inglese. “Qualcuno medita, qualcuno prega”, spiega la Mistress a Belle, per poi illustrare il menu delle sessioni: “Qualche leggera sculacciata, qualche frustatina, cuoio morbido”. E quando Belle si informa su come ci si regola quando si tratta di fare sesso, l’amica lo esclude recisamente. “E come fai a sapere quando hai finito?”, chiede Belle. La risposta è comicamente prosaica: “Mi suona il timer dell’orologio”. Per i suoi schiavi, continua la Mistress con tono serissimo, lei è una dea e mai si abbasserebbe a fare sesso con loro, distruggendo una distanza che può essere fondamentale per  un rapporto di dominazione – anche perché è una donna sposata e non ha alcuna intenzione di tradire il marito.

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Dopo un breve dialogo su ciò che prova chi viene dominato (sollievo, soprattutto: dalle responsabilità delle proprie azioni e dal senso di colpa, perché quello che stai facendo, per sporco o umiliante che sia, non lo stai facendo di tua volontà, ma solo perché qualcuno ti ci sta constringendo con la forza – tanto che Belle sospira, guardando lo schiavo che sta leccando gli stivali della sua amica: “Già, sotto al tavolo ci si deve sentire tanto in pace”) arriva per la protagonista il momento di passare all’azione col suo commercialista, ed è qui il punto che mi stava a cuore tanto da volerne parlare. Il momento della negoziazione.

Immagine 16.pngImmagine 17.pngSì perché se noi, che viviamo le nostre fantasie solo nel mondo virtuale di Second Life, possiamo permetterci di rischiare qualsiasi esperienza – passando dal fetish leggero a ogni sorta di kink, per estrema che possa sembrare – la vita reale è un’altra cosa. E se già su Second Life non è particolarmente facile incontrare qualcuno di cui potersi fidare, posso solo immaginare quanto sia arduo incontrare nella realtà qualcuno a cui offrire il controllo assoluto sul proprio corpo. Pertanto, come ci spiega Belle, qualsiasi cosa accadrà nel corso della sessione deve essere minuziosamente deciso prima, per evitare che la fantasia della sofferenza si trasformi in sofferenza reale, e che la costrizione non abbia gli effetti paradossalmente liberatori cercati dalla vittima, bensì l’esatto contrario. Anche gli insulti sono concordati in precedenza col cliente, via e-mail, come in una vera e propria sceneggiatura che andrà rispettata nel modo più scrupoloso.

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Il risultato di tutta questa pianificazione, insomma, altro non è che un vero e proprio RP. Io che non ho mai vissuto questo tipo di esperienza nella vita reale posso solo imaginare che la sensazione potente della costrizione fisica (e, immagino, una certa dose di elasticità nell’interpretare la sceneggiatura prevista da parte del personaggio dominante) debba compensare il fatto che, poiché tutta la scena è stata definita prima di cominciare, la sensazione di perdita di controllo non possa essere che molto relativa. Personalmente, credo che se dovessi pianificare tutto prima mi sentirei annoiata come quando mi succede di dover rivedere un film che già conosco… ma stiamo pur sempre parlando di un telefilm, e di una situazione in cui il rapporto sub/dom è temporaneo, mercenario e soprattutto per questo destinato per forza a una semplificazione che non si avrebbe se fra le due persone coinvolte ci fosse invece una relazione emotiva. Se non vi spiace, quindi, andiamo avanti, perché siamo arrivati alla questione che fin dall’inizio volevo toccare. La questione espressa dalla battuta pronunciata da Belle nei sottotitoli dell’immagine di apertura di questo post. Come si fa a sapere se stai facendolo nel modo giusto?

Immagine 19.pngImmagine 21.pngImmagine 22.pngSecret Diary of a Call Girl ha il tono della commedia, ma il tema è serio e mi sembra che tocchi direttamente molti altri spunti che mi è capitato di sfiorare in queste pagine – temi che forse hanno a che fare più col BDSM virtuale di Second Life che con quello del mondo reale. Un rapporto fra dominante e sottomesso nasce da un equilibrio molto fragile fra i desideri di tutti e due, perché se è scontato che una parte provi piacere nel dominare e l’altra nell’essere dominata, il rischio è che, nel tentativo di pilotare la scena, ciascuno tiri o spinga troppo dalla parte sbagliata. Chi si trova ad essere dominato proverà il desiderio di suggerire a chi lo sta dominando qualche idea, qualche comportamento particolare – ma facendo ciò, di fatto, allontana irrimediabilmente quel desiderio di perdita di controllo che può essere soddisfatto solo dal sentirsi in balia della volontà di qualcun altro. Questo comportamento può arrivare al fenomeno del cosiddetto topping from the bottom, quando di fatto è la persona legata a decidere tutto e, con maggiore o minore discrezione, detta a chi dovrebbe avere il controllo ogni azione. Per me, questa diventa quasi una forma di self bondage, in cui il dominante non è che uno strumento con cui il sottomesso dà piacere a se stesso. Dall’altra parte, ovviamente, c’è il rischio che chi sta sopra esageri nell’inseguire i propri desideri, imponendo alla sua vittima restrizioni o trattamenti che, appunto, vanno al di là della soglia oltre a cui il piacere svanisce. “Nel mio mestiere”, commenta Belle, “quando porti un uomo all’orgasmo sai di aver avuto successo. Qui invece non riesco nemmeno a capire se se la sta godendo”.

Immagine 23.pngQuesto dilemma io l’ho vissuto spesso, su Second Life, e so di per certo di non essere sola. So che Belias, quando mi aveva catturata, aveva paura di non essere all’altezza delle mie aspettative, e chi ha letto tutto questo blog sa bene fino a che punto abbia saputo travolgermi. So che Calypso Agseram, in questi giorni in cui mi teneva incatenata, spesso mormorava cose tipo “sono un disastro”, “ti sto annoiando”, mentre io, presa completamente di sorpresa da un comportamento che da lei non mi aspettavo, mi sentivo cera molle nelle sue mani ed ero felice di esserlo. In generale, ho imparato spesso a riconoscere, anche nelle Mistress più feroci – quelle vere, intendo, non le Win della situazione, ma quelle che mai e poi mai potrebbero anche solo pensare di cedere il controllo su di sè a qualcun altro – la sottile paura di non saper trovare il punto giusto… il comportamento che coglie nel sub quel punto debole, quel particolare che vince qualsiasi resistenza e che può travolgere tutti i limiti, negoziazione o non negoziazione.

Immagine 24.pngLa paura c’è. Forse ci deve essere perché, come nella maggior parte delle cose importanti, in un rapporto fra due persone non esistono regole. Ci si può mettere d’accordo su tutto, ma la cosa più bella è quello che accade senza pianificazione, o a dispetto di essa… quello che si scopre rischiando di sbagliare, cercando di accorgersene in tempo quando si fa un passo falso, ma senza esitare troppo per la paura di sbagliare. Perché non sappiamo mai quando quello che ci sembra un errore si rivela, per l’altra persona, proprio quello che desiderava e non sapeva di desiderare.

Un bavaglio che non mi piace

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A circa un anno e mezzo da una iniziativa analoga, un’altra occasionale violazione alla mia regola di non occuparmi, qui, di questioni che abbiano a che fare con la RL di questo nostro disgraziato paese.

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Stavo per cominciare questo post chiedendo scusa se, una volta tanto, uso questa pagina per manifestare preoccupazione per quello che sta succedendo in Italia. Ho deciso che non sono io quella che dovrebbe scusarsi, ma coloro che distruggono, giorno dopo giorno, quello che resta di buono nel nostro paese.

Non scriverò molto perché non sono che un avatar e, per giunta, con interessi che la maggior parte della gente considererebbe probabilmente devianti. Ho la passione del bondage: mi piace legare ed essere legata, imbavagliare ed essere imbavagliata. Ma il bavaglio che è stato messo ieri all’informazione e alla giustizia è qualcosa che non posso e non voglio tollerare senza almeno esprimere il mio disgusto.

573833231.jpgSono orripilata dalla piega sempre più esplicitamente autoritaria che il regime che ci controlla imprime ogni giorno che passa all’Italia. E mi spaventa molto rendermi conto di come, ieri, sia passato qualcosa di molto peggiore del bavaglio ai blogger contro cui si protestava nel novembre 2008. Non è più “solo” una questione di blog, purtroppo.

Fate attenzione, per favore. Parlo non agli avatar, ma agli agenti che ci stanno dietro. Fate attenzione. Non lasciate che questa porcheria passi sotto silenzio. E che nei prossimi giorni l’Italia parli solo di calcio, come nella canzone di Gaber, mentre qualcuno se la inghiotte intera.

Cannes 2010: “R U There” di David Verbeek

Qualche appunto su un altro film che ho visto nei giorni scorsi al Festival di Cannes e che ha qualcosa a che fare con gli argomenti di cui si parla su queste pagine. Anche se non ci sono corde, né manette, né celle. Con qualche immagine, una volta tanto, che ho catturato nella vita reale.

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Chi mi conosce lo sa: ci tengo un poco all’ortografia e non mi piace affatto quando qualche interlocutore in-world si esprime con abbreviazioni che sarebbero più adatte a una comunicazione via SMS. Naturalmente, come con tutte le regole non fondamentali, sono pronta a passarci sopra quando mi pare e l’eccezione più importante è Andromeda. Mi capita spesso, con lei, non solo di tollerare frasi come “R U @ work” (traduzione: “are you at work”, ossia, “sei al lavoro?”) ma anche di apprezzarle come l’ennesima espressione di quel suo modo di essere così positivo, autoironico, serio senza mai essere serioso. Lo so, sono di parte. Ma dopo tutto – anzi, prima di tutto – la mia Andro resta la mia Andro.

IMG_0129.JPGNon so se sia stato per questo motivo, ma un titolo come “R U There” ha attratto immediatamente la mia attenzione fin da quando ho dato la prima occhiata al programma di Cannes 2010 per cominciare a fare mente locale sui film da tenere d’occhio. Ho fatto quindi il diavolo a quattro e, incastrando per benino gli altri impegni della trasferta, non solo sono riuscita a infilarmi alla proiezione ufficiale del film, alla presenza degli autori, ma anche a scambiare due parole con il regista David Verbeek (un discreto figo, fra l’altro, se posso permettermi – vedere per credere)!

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Non sono una critica cinematografica e non starò a lanciarmi in una spericolata recensione. Dirò solo che “R U There”, anche se magari non riesce a svilupparlo fino in fondo, ha sicuramente il merito di affrontare in modo diretto le implicazioni del  progressivo e forse inesorabile diffondersi della vita virtuale. E di farlo, aggiungo, dimostrando un’esperienza diretta dell’argomento, cosa che lo distingue da tanti film del cavolo in cui i mondi virtuali sono usati come espedienti narrativi per storie avventurose estremamente banali.

ruthere033084.jpgIl protagonista del film è un giocatore professionista di videogiochi sparaspara – quelli, per intenderci, in cui si vede il mondo in soggettiva (o, per chi è familiare con Second Life, in mouselook) e si deve sparare a quasi tutto quello che ci si trova davanti eccettuati i propri compagni di avventura. Il film comincia nel pieno di una ferocissima battaglia, fra le rovine di una città, carrarmati semidistrutti e soldati feroci e abilissimi col mitra – e la cosa singolare è che il protagonista e i suoi colleghi ci vengono descritti come degli atleti, quasi sempre in tuta da ginnastica e, spesso, impegnati in allenamenti fisici piuttosto intensi.

Per partecipare a un torneo importante, il protagonista si reca a Taipei e lì, nel lussuoso albergo in cui viene ospitato fra una battaglia virtuale e un’altra, incrocia una fascinosa escort cinese che accetta di fargli un massaggio a pagamento. Il rapporto fra i due non va oltre, lì per lì, ma lui, affascinato, la ritrova impegnata nel suo lavoro principale (commessa sexy in vetrina una specie di fast food per automobilisti). Una chiacchiera tira l’altra fino a quando lei gli dice che, per rilassarsi, ha l’abitudine di andare su Second Life. E lo invita a raggiungerla.

Guardate il trailer qui sopra per avere un’idea. Il nostro protagonista, su Second Life, ci va con una mimetica da soldato – perché è quello il suo mestiere nel mondo virtuale in cui è abituato a passare gran parte della sua vita. Ma il metaverso della Linden Lab è, per definizione, molto diverso dall’ambiente di uno sparaspara, perché quando ci arrivi non hai alcuna meta prefissata. Ci entri e tutto quel che puoi fare è cominciare a guardarti intorno e a cercare… cosa? Non un nemico da distruggere, non un tesoro da raccogliere… o forse tutto questo ma anche altro. Perché quando nessuno ti dice quello che devi fare tocca solo a te scoprirlo. È qui che il discorso del film si fa intrigante: Second Life come alternativa al mondo del videogioco – una bella capriola se pensiamo che il videogioco, per molti versi, è un’alternativa alla vita reale. Ma che cosa è l’alternativa di un’alternativa?

rutherecoppiaregista.jpgParlando col regista, mi ha colpita una sua osservazione: che di Second Life lui apprezza il silenzio, la solitudine. Qualche mese fa avrei pensato che chi dice così non conosce realmente il nostro piccolo enorme universo elettronico – e forse sotto sotto la penso ancora un po’ così. Ma non bisogna mai dimenticare che, davvero, la cosa meravigliosa di Second Life è proprio questa libertà assoluta di fare ed essere quello che si desidera. C’è qualcuno che costruisce, qualcuno che scripta, altri che vivono avventure e allacciano rapporti complessi e spesso impensabili nella vita reale. Moltissimi preferiscono esplorare, viaggiare, osservare la gente, i luoghi e gli oggetti. Ma c’è sicuramente anche chi ama, semplicemente, restare collegato e, come la protagonista del film, rilassarsi senza fare niente, godendosi il distacco dalla realtà che si prova quando ci si identifica in un avatar.

RUTherepic.jpgMi è capitato spesso di sentire lamentele di gente che si affacciava su Second Life e trovava insopportabile questa mancanza di un fine prestabilito. Ma il metaverso nasconde sensazioni affascinanti anche quando capita di trovarsi soli a esplorare land deserte e apparentemente abbandonate. A me è capitato di riscoprirlo, a molti mesi dai miei primi passi sulla Help Island, durante il mio ultimo banishment, in cui la solitudine era dettata dalla mia situazione: a volte, quell’impressione di trovarmi in una sorta di gigantesco quadro di De Chirico, era davvero ipnotica e rilassante, soprattutto a contrasto con un periodo in cui la RL mi impegna parecchio e mi lascia pochissimi istanti liberi per restare un pochino sola con me stessa. E potrei aggiungere che l’impressione capita di averla anche quando si è in compagnia: a chi non è capitato di trovarsi assieme ad un altro avatar che restava muto a lungo, per scoprire solo più tardi che la persona che gli dava l’anima si era allontanata un attimo dalla tastiera? Nel film, la domanda del titolo ha proprio questo significato: “Ci sei? Sei qui con me, ossia al computer? Oppure hai, come dice Jelena, parcheggiato la pupazza e ti sei fatta assorbire da qualche impegno di RL?”

IMG_0126.JPGIMG_0127.JPG“R U There” non è un capolavoro ma ha un merito indiscutibile: quello di affermare a chiare lettere che Second Life è, dopo tutto, solo un luogo come tanti altri nel quale viviamo la nostra vita – l’unica che abbiamo, l’unica in cui possiamo ridere o piangere, godere o soffrire, o fare tutte queste cose insieme. E il finale del film, un po’ enigmatico, arriva proprio a questa conclusione. Noi siamo quello che siamo, sempre e comunque, sia che indossiamo l’avatar di carne e sangue che ci è stato assegnato dalla natura e dal destino, sia che ci si trasferisca per un poco in un soldato armato di mitra e con una missione da compiere… o in un avatar che vaga di land in land cercando una meta sempre cangiante.

foto 7.jpgAbbiamo più volte parlato qui della famosa Umanità accresciuta e ogni settimana che passa arricchisce l’espressione di nuovi significati. Me ne sto accorgendo da quando, con l’iPhone che mi è stato regalato per il mio compleanno, scopro la possibilità disovrapporre alla vita reale cartelli indicatori galleggianti come mi era capitato finora di vedere solo nella mia vita di avatar… ma anche quando leggo articoli sul modo in cui l’esperienza di una riunione all’interno di Second Life lasci tracce mnemoniche molto, ma molto più forti rispetto a quella di una videoconferenza (se capite l’inglese, andate a leggere questo articolo, segnalatomi da Frough Spad). I mondi virtuali e quello reale sono sempre più strettamente interconnessi e sono convinta che sia solo una questione di tempo prima che le nuove modalità di interazione fra le persone siano viste non più come un gioco più o meno esotico per impallinati del computer ma, semplicemente, come tanti altri strumenti entrati nell’uso quotidiano come il telefono.

ruthere033268.jpgNon so cosa avverrà, allora, a chi come me vive su Second Life quello che non osa o non può vivere nella vita reale ma non immagino scenari particolarmente apocalittici: si tratterà solo di imparare pian piano a convivere con le varie identità e personalità che i nuovi mezzi ci mettono a disposizione. Del resto non è forse già così? Al lavoro ci comportiamo secondo certi codici e regole che a volte possono essere parecchio diversi da quelli che applichiamo a casa – e lo stesso vale, dopo tutto, anche a seconda delle persone che frequentiamo. Con i compagni della pallavolo ci si comporta un po’ diversamente che con le persone con cui andiamo al cinema, o con i nostri familiari, o con i vicini di casa… eppure ciascuno di noi resta sempre se stesso.

liciacisse.jpgIn una chiacchierata di qualche giorno fa, Licia Cisse ha commentato il mio post precedente (quello su “Chatroom”) partendo dalla frase “fai attenzione a quello che desideri perché potresti ottenerlo” e chiosando: “io sono per un ..’fai attenzione a quello che vivi nella tua immaginazione visiva e cinestetica perché la stai già vivendo’..:) “. È vero anche questo. Altro che Second Life.

 

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Cannes 2010: “Chatroom” di Hideo Nakata

Visto che le connessioni wifi della zona e il lavoro mi impediscono quasi sempre anche solo di affacciarmi in-world, torno a occuparmi di cinema con qualche riga su uno dei due film della rassegna che ha qualcosa a che fare con il nostro vizio elettronico.

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Non credo di aver mai visto un film di Hideo Nakata prima di l’altro ieri sera, ma il suo era un nome che conoscevo: nel 1998, con “Ringu”, si è affermato in tutto il mondo come uno degli apripista del nuovo cinema horror giapponese e il suo talento è stato subito esportato – al punto che, dopo che a dirigere il remake statunitense “The Ring” era stato incaricato Gore Verbinski, è stato invece Nakata in persona a firmare “The Ring 2” per il pubblico statunitense.

chatroom_imogen.jpgNon sono particolarmente appassionata di horror, ma a suo tempo mi era capitato di vedere “The Ring” perché parlava di cinema e homevideo. Qualcuno se lo ricorda? Era la storia di una videocassetta stregata: chi la vedeva riceveva una telefonata e, da quel momento, sapeva che non gli restavano che pochissimi giorni prima che una ragazza fantasma, col viso coperto da lunghissimi e gocciolanti capelli neri, venisse a ucciderli. La trama non aveva molto senso, ma spesso l’horror non ha bisogno di averne, se riesce a creare un’atmosfera – e “The Ring” ne aveva quantomeno abbastanza da farmi fare un po’ di salti sulla poltrona. Però l’argomento era e restava poco più di un pretesto abbastanza intercambiabile per una storia di fantasmi.

chatroomdasito.jpgIl caso di “Chatroom”, che ho visto l’altro ieri sera al festival di Cannes (dove partecipa alla sezione Un certain regard) è diverso. Anche se, a quanto ho capito, nè il regista nè lo sceneggiatore hanno grande esperienza di vita virtuale, la storia ha a che fare molto direttamente con certi meccanismi scatenati dalle modalità di interazione resi possibili da Internet – in particolare, visto che si tratta di un thriller, nella possibilità per persone senza troppi scrupoli morali di poter manipolare gli interlocutori psicologicamente più fragili, piegandoli alle loro fantasie di potere. Il protagonista è un certo William, giovane e problematico figlio di una scrittrice di successo (abbastanza palesemente ispirata alla Rowling) che passa il tempo nelle chat a caccia di vittime potenziali da poter schiacciare – portandoli, nei casi più riusciti, addirittura a un sucidio in diretta a beneficio della webcam.

chatroom_cast.jpgDico subito che a livello di indagine psicologica la sceneggiatura mi è parsa tutt’altro che sottile, ma quello che mi ha colpita del film è proprio il senso di quanto a volte sia facile manipolare gli altri attraverso una connessione remota. È un problema molto serio di responsabilità che mi sono posta molte volte, soprattutto da quando ho cominciato ad avere in mano le chiavi di alcune persone a cui tengo – e ancora di più dopo che la nascita del Winsconsin Correctional Facility mi ha cominciato a mettere spesso nelle condizioni di dover dirimere questioni di vario genere ma che, quasi sempre, avevano a che fare con le emozioni delle persone.

Nella vita reale cerco di essere molto cauta nel giudicare le persone – al punto forse che qualcuno mi rimprovera a volte di essere troppo propensa a giustificare tutti sempre e comunque, almeno finché la colpevolezza non sia proprio indiscutibile e dimostrata. Su Second Life tendo a giudicare con minore esitazione anche e soprattutto quando mi accorgo che qualcuno se lo aspetta – eppure ogni volta non posso fare a meno di pensarci bene non due, non tre ma, se possibile, dieci volte. Perché forse l’unica cosa che ho capito, dopo tanti mesi passati in-world, è quanto profondamente questo mondo tocchi le emozioni di chi lo vive in un certo modo – e ancora di più quando parliamo dell’ambiente in cui vivo la mia seconda vita, fra manette e corde, alla ricerca di quel’incredibile senso di sollievo dell’anima che la costrizione fisica produce in chi la subisce.

chatroom1.jpgCi tornerò prossimamente in un post rimasto in cantiere da molti mesi (suggerito da una puntata di un divertente serial inglese, “The Secret Diary of a Call Girl”) ma in un rapporto di bondage, anche se virtuale, la posizione di chi lega o tiene le chiavi è quella più delicata: una persona che ti concede di legarla si affida a te in modo assoluto, offrendoti le sue emozioni e rendendosi estremamente vulnerabile. Lo fa, con tutta evidenza, perché la sensazione la libera o la eccita, ma, forse, anche perché capisce che può fidarsi di te. Su Second Life tendiamo a vivere esperienze molto più estreme di quelle che oseremmo mai immaginare nella vita reale perché siamo tutte libere dal terrore del rischio fisico – di trovarci in balia, che so, di un serial killer, o di un sadico le cui fantasie possano rivelarsi molto al di là di quello che siamo disposte a sopportare. Qualsiasi cosa accada, possiamo sempre spegnere il computer e tornare al sicuro nella nostra vita di ogni giorno. Ma questo non vuole affatto dire che i rischi non ci siano, perché la suggestione del metaverso ci espone a una vulnerabilità psicologica enorme.

Chatroom066.jpgDi fatto, mentre siamo collegati su Second Life, viviamo simultaneamente in due mondi – quello reale, in cui siamo seduti da qualche parte con una tastiera e uno schermo davanti, e quello in cui ci proiettiamo. Qualcosa di simile a quello che accade in “Chatroom”, gran parte del quale si svolge in una stanza che rappresenta visivamente l’ambiente in cui i protagonisti di una chat si incontrano. E come Second Life quella stanza, forse inevitabilmente, è sempre più colorata, intensa e teatrale rispetto vita reale. È amplificata perché semplificata. È amplificata perché la sosteniamo con la nostra immaginazione personale. Ma la nostra capacità di reagire ad essa in modo equilibrato, quella è tutta da dimostrare.

Nakata_Chatroom.JPGMolti di noi avatar sanno bene cosa significa stare male per qualcosa che è successo su Second Life – dico stare male davvero, non riuscire a dormire in RL, aver voglia di piangere, o non riuscire a pensare ad altro. Il fatto che nessun serial killer sia in grado di risalire al nostro indiri zzo per strangolarci nel sonno non vuol dire che una persona abile con le parole e magari dotata di una personalità forte non sia in grado di toccarci, manipolarci e rigirarci come il proverbiale calzino.

Magari è proprio questo che cerchiamo, quando sbarchiamo su Second Life per cercare, magari senza confessarcelo, qualcuno in grado di dominarci? Beh, come dice una frase che ho sentito ripetere spesso, fai attenzione a quello che desideri perché potresti ottenerlo. E la manipolazione delle emozioni, a volte e per certe persone, può essere forte quanto quella fisica.

 

Shuggi Grunspan: Io parlo con te, non con la tua padrona…

Qualche tempo fa, un incidente avvenuto al WCF mi ha fatto riflettere su un modo di fare che mi ha sempre infastidita. Abbastanza curiosamente, proprio in quel periodo, sul blog di Shuggi Grunspan (una mia ex bane e oggi un’amica) è comparso un post che affrontava proprio quella questione. Ne pubblico qui la traduzione, con il permesso di Shuggi, perché mi sento di sottoscriverne ogni parola, sperando che possa servire da spunto di riflessione per tante persone che, almeno su SL, scambiano il BDSM per una sorta di teatrino con regole che non stanno né in cielo né in terra.

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Io parlo con te, non con la tua padrona, o mistress o regina o quale che sia il suo titolo.  Oh, mica crederai di sfuggire alla mia ira solo perché sei sottomessa a qualcun altro? Uh-uh, se mi offendi te la vedrai direttamente con me.

Nell’ampio catalogo delle cose che mi fanno girare le scatole c’è il fatto di leggere, nel profilo di qualcuno, una frase come questa:

Qualsiasi reclamo o complimento dovrà essere indirizzata alla mia padrona, Miss Duescarpe

Questa roba mi irrita per vari motivi. Per dirne uno, va contro alla mia filosofia relativa al BDSM. Io non ho rapporti con dominanti o sottomessi, io ho rapporti con delle persone. Se in alcuni di questi rapporti c’è un elemento di BDSM, si svilupperà nel corso di un dato periodo di tempo. Per cui, se qualcuno mi offende, non c’è alcun elemento BDSM, è solo un conflitto interpersonale che non riguarda nessun altro.

Un altro problema che quella frase mi provoca è sono la prima ad avere le mie fisse personali. Nelle persone che mi si sono sottomesse ci sono caratteristiche che per me hanno un gran valore e che potrebbero benissimo non conformarsi alle idee che qualcun altro può avere sul BDSM. Beh, tesoro, stìca. Se si sottomettono a me è per dare piacere a me (e a se stesse), non per darlo a te, e da parte mia sarebbe una completa ipocrisia contattare qualche dominante perché la loro sub non si è conformata ai miei ideali.

In qualche caso, contattare il o la dominante è necessario, in genere per trascinarli sui carboni ardenti. Mi viene in mente un’occasione particolare: una signora che rifiutava di rivolgersi a me se non chiamandomi sis o miss. I lettori abituali conosceranno la mia posizione in proposito, e se così non fosse ecco quello che ho scritto su queste sciocchezze [NOTA DI WIN: Il link che precede rinvia al post originale in inglese]. Questa signora insisteva che rivolgersi a me con qualsiasi altro termine sarebbe stato trasgredire le sue istruzioni, per cui in quel caso contattai la sua mistress e gliene dissi quattro per avermi coinvolto, senza il mio consenso, nel loro BDSM.

Se no, salvo casi del genere, io mi rivolgo direttamente alla persona e, sapete una cosa? Credo che alla lunga questa scelta paghi i dividendi. Vedo qualcuno che fa un ottimo lavoro su un set di catene pesanti (la persona a cui sto pensando sa che sto parlando di lei) e non esito un attimo ad aprire un IM e fare “ooooooh, adoro quel che hai fatto con le tue manette,” e non mi sembra di comportarmi in modo irragionevole.

Quel che trovo ancora peggio è una roba di questo genere:

Qualsiasi reclamo o complimento circa le mie ragazze deve essere rivolta a me.

Prego? Chi credi di essere per dire a me cosa fare? Se io ho un problema con una delle tue ragazze-che-vivono-sottomesse-e-non-sanno-parlare-da-sole, me la vedrò con lei, non certo con te. Se davvero ci tieni a fare il micro-manager della loro esistenza, dì a loro di riportare a te reclami o complimenti, ma lasciami fuori. Se, dopo averlo fatto, senti il bisogno di venire a parlarmi, accomodati – ma dovrai essere tu a cominciare la conversazione, non io.  Sono un tipo molto disponibile, davvero, e sono sempre aperta a una buona discussione.

Tratto dalla sezione Le fisse di Shuggi su SL e il BDSM.
Shuggi Greenspan (traduzione di WinthorpeFoghorn Zinnemann)

Il post originale (in inglese) è qui.

La vita, la morte, gli avatar

Pochissime, veloci, considerazioni, sul film che tutti stanno andando a vedere e su un altro film che è nelle sale in questi giorni.

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Potevo non andare anche io a vedere Avatar? In genere, la fantascienza che piace a me è quella un po’ più concettuale, che usa il fantastico per parlare di quello che siamo nella realtà. Tendo a diffidare, invece, del fantasy di pura evasione, dei mondi fatati, dei troppi colori, e sapevo che il nuovo film di James Cameron proponeva soprattutto questo. Eppure, beh, Cameron è lo stesso che, nel primo Terminator, è riuscito a rivedere in modo originale il complesso di Edipo… e che in The Abyss ha creato una scena per me bellissima in cui un personaggio, per poter sopravvivere, deve accettare di morire, sia pur temporaneamente, per annegamento. Insomma, non certo un Ingmar Bergman, ma nemmeno un cialtrone che bada solo agli effetti speciali.

valentinavatar_001.jpgIn questo caso, avevo abbassato comunque le mie aspettative: quando si ha in mano un film costato quasi 300 milioni di dollari, è molto improbabile che si tenti qualcosa di tematicamente innovativo. Sono entrata in sala pronta ad accontentarmi di un’esperienza sensoriale e visiva, a godermi lo spettacolo del 3D e a lasciarmi andare a una storia che, me lo dicevano tutti, non andava molto oltre un incrocio fra “Pocahontas” e “Balla coi lupi”. Però però…

…beh, il film, dopotutto, si chiamava “Avatar” e mi era impossibile andare a vederlo senza pensare al fatto che, come tutte le persone che frequento su Second Life, io sono esattamente quello: un avatar, una rappresentazione, un simbolo, un personaggio che è al tempo stesso me stessa e qualcosa di diverso. Qualcosa (o qualcuno) che io vedo in terza persona (salvo quando qualcuno mi costringe alla visione soggettiva del mouselook, eheheh) pur vivendoci in prima persona. Qualcosa di strano e inquietante, che è diventato a suo modo realtà solo da quando internet ha reso possibile la costruzione di metaversi affini a quello teorizzato dal buon Neal Stephenson. Il 15 gennaio, il giorno in cui “Avatar” usciva nel nostro paese, era esattamente due giorni prima del mio terzo “rez day” (a proposito: grazie di cuore a tutte le persone che, in-world o su Facebook, mi hanno fatto gli auguri. Io stessa non mi sarei nemmeno accorta della data se tramite lo SPY non avessi sentito Lella che ne parlava con Nightwish!) e quindi potrei dire di essermelo offerto anche come una sorta di regalo di compleanno.

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Dico subito che mi sono divertita, ma non sono qui per fare una recensione: mi interessa invece annotare quello che mi sembra possa riguardare la nostra vita di abitanti di Second Life. Che il tema del film non fosse quello degli avatar come li intendiamo noi lo sapevo fin dal principio – ne avevo avuto conferma anche da un’intervista a Cameron che Frough Spad aveva postato su Facebook lo scorso 18 dicembre. Eppure “Avatar” ha almeno un paio di momenti interessanti anche dal nostro punto di vista – momenti in cui si può intuire la complessità di un tema che Cameron si limita appena a sfiorare.

Immagine 1.pngMolto molto in breve, il film racconta di un marine che viene inviato in missione sul remoto pianeta di Pandora. Per consentirgli di mescolarsi ai Navi’i – un popolo di altissimi umanoidi blu – gli viene fornito un corpo identico a quello degli indigeni, un corpo che si può controllare a distanza tramite una sorta di loculo munito di sensori. Siamo, come si vede, in una situazione che corrisponde in pieno alla definizione di umanità accresciuta di cui abbiamo più volte parlato: tanto più che il protagonista è paraplegico e che, di conseguenza, la sua second life in un fiammante nuovo corpo blu gli offre anche l’occasione di non dipendere più da una sedia a rotelle. Ed ecco subito un primo riferimento molto forte a ciò che Second Life significa per tante persone: un luogo dove recuperare qualcosa che si è perduto (che sia la giovinezza o il controllo sul proprio corpo) o che non si è mai potuto avere nella vita reale (volare, oppure vivere fantasie potenzialmente rischiose… come le nostre).

Immagine 2.pngSolo che questa conquista di nuovi poteri è condizionata dal vincolo fra, diciamo, agente reale e avatar. Poiché su Second Life siamo solo pixel, quando questo nesso viene a cadere il nostro avatar si dissolve nel nulla passando immediatamente alla non esistenza. Nel film, invece, l’avatar è un corpo fisico e pertanto continua a esistere anche quando l’agente reale ne abbandona il controllo: e infatti. di regola, questo distacco avviene normalmente solo dopo che l’avatar si è coricato per dormire. Quando, in un paio di scene, il protagonista viene costretto a uscire dal suo loculo di controllo nel pieno di un’azione, il suo avatar si affloscia esanime a terra – e lì rimane come un corpo morto, almeno fino a quando la connessione non viene ristabilita.

Insomma, il rapporto fra gli avatar di “Avatar” e i loro agenti assomiglia molto a quello che intercorre fra il nostro pensiero (la nostra anima, o come vogliamo chiamarla) e il nostro corpo fisico. Quando ci addormentiamo, il corpo resta lì ad aspettare il ritorno dello stato di veglia… e al momento della nostra morte, almeno per un po’ di tempo, la nostra spoglia mortale resterà sulla Terra come testimonianza del nostro passaggio. Su Second Life, al contrario, scompariamo nel nulla nell’istante stesso in cui, facendo logoff, togliamo all’avatar la coscienza di esistere . Chissà che non sia proprio questa la chiave che spiega il perché, a volte, ci scopriamo a restare online per ore e ore anche quando, magari, non ci sta succedendo nulla di particolarmente appassionante? Restare connessi, nonostante la noia, per il semplice piacere di continuare ad esistere anche nel metaverso. Perché fin tanto che esisti tutto è ancora possibile.

Immagine 4.pngQuesta considerazione si ricollega all’altro film che ho visto in questo fine settimana: si intitola “A single man” ed è interpretato da Colin Firth, un attore che trovo bellissimo e che è anche straordinariamente bravo. Attenzione, se non lo avete ancora visto, perché di questo film rivelerò il finale nelle prossime righe. È la storia di un uomo che, dopo la morte della persona che amava più di ogni altra cosa al mondo, ha deciso di suicidarsi: solo che la vita, le persone che gli stanno attorno, il caso, hanno ancora qualcosa da offrirgli… momenti di calore che irrompono a sprazzi nel gelo che ormai lo circonda. Il regista Tom Ford esprime questi momenti in modo visivo: ci sono sorrisi, frasi, situazioni in cui l’immagine diventa, letteralmente, più calda nei momenti in cui il cuore del protagonista viene toccato da qualche emozione. Alla fine del film, il desiderio di vivere di Colin Firth vince sul suo proposito suicida; solo che, proprio in quel momento, un infarto improvviso se lo porta via. Eppure non si tratta di un finale triste, perché il protagonista, se mi permettete il bisticcio, muore vivendo – e non rinunciando alla vita. Visto che, prima o poi, tutti dobbiamo andarcene, quello che conta è, come sempre, il percorso, e c’è una certa differenza fra scegliere di anticipare la fine del viaggio e arrivarci mentre si sta tentando di goderselo.

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Immagine 3.pngMa voglio tornare ad “Avatar” per un’ultima considerazione che rubo di peso dal profilo Facebook di uno dei miei contatti (e che mi sono già rivenduta in un commento a un altro articolo sul film apparso su SLLN.it): “(…) Per gli amanti di Sl, la chiara conferma che non si può vivere a scavalco di due mondi, occorre scegliere, altrimenti si sta male e si diventa inevitabilmente traditori. Il protagonista, accortosi di essere diventato traditore ha scelto. Era inevitabile….“. Ecco, mi pare un’analisi molto lucida di quello che prova chi vive la sua Second Life con trasporto: una vaga sensazione di disagio, quasi che, mentre si sta nel metaverso, si tradisse tutta la propria vita reale – ma anche la sensazione opposta, di quando si abbandona online qualche avatar che pensiamo abbia bisogno di noi.

Davvero non è possibile vivere con l’anima in due mondi? O è solo un difficile esercizio di equilibrio col quale, via via che il concetto di metaverso si diffonde, faremmo bene a familiarizzarci?

[AGGIUNTA 24 ORE DOPO: Ci tengo a segnalare, in coda a queste riflessioni, una vera e propria risposta dedicatami da Alessia Greggan in un suo blog interessantissimo che sto, pian piano, leggendomi tutto con attenzione. Il suo post si intitola Dedicato a Win: prigioniera come me di Second Life, ma veramente consiglio di affrontare il suo blog partendo dai post più vecchi e risalendo fino a quelli più recenti. Ne vale la pena, davvero, perché contiene una marea di considerazioni molto sentite su ciò che significa vivere nel metaverso – e anche per scoprire lungo la strada come mai sia stato, in tempi recenti, quasi abbandonato…]

Guardandomi allo specchio

Questa pagina degli appunti presi da Win nel corso della sua recente prigionia viene pubblicata con la sua autorizzazione solo a condizione di aggiungere questa breve introduzione e, in coda, un suo breve commento. Qui basterà segnalare che si tratta di note private, non destinate alla pubblicazione se non una volta che la vicenda si fosse conclusa. Qualcosa che, anche nel caso che le sue catturatrici avessero deciso di perquisirla, non le avrebbero trovato addosso, perché troppo personale, troppo sul filo del rasoio che divide il RP dalle sensazioni reali. E troppo suscettibile di modificare i comportamenti di chi le avesse lette. Lo pubblichiamo come una fotografia di quello che, in quei giorni, le passava per la testa.

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Quarto giorno – 12 dicembre 2009

rapitainizio_003.jpgOggi è il giorno dell’anniversario mio e di Jelena, e non posso celebrarlo con lei – prigioniera in-world di Francesca e dei suoi accoliti, e in RL del weekend, durante il quale non mi collego praticamente mai. Ma la mia situazione gravissima occupa quasi sempre una piccola parte dei miei pensieri in RL. Ero molto, molto turbata quando mi sono scollegata ieri. La sicurezza con cui Francesca mi raccontava di aver pianificato tutto, di avermi osservata a lungo, di essersi preparata a lungo per essere sicura di impadronirsi di me aveva qualcosa di ipnotico… mi faceva sentire come un coniglietto stretto nelle spire implacabili di un pitone, senza più nessuna speranza di salvezza. Una sensazione terrificante ma, lo confesso, anche profondamente eccitante: Francesca non aveva del tutto torto nel sostenere di essere una manifestazione di un mio desiderio – e la cosa che mi faceva venire le vertigini era rendermi conto di quanto, questo desiderio, fosse rimasto nascosto dentro di me per tutto questo tempo… Credevo che, nella nuova persona che sono diventata da quando conosco Andromeda, quella paura e desiderio del rapimento fossero ormai svaniti – però, se dovevo dar retta alle sensazioni che provavo mentre Francesca assaporava il suo potere su di me, invece, forse erano stati solo messi da parte.

rapita_001.jpgMa poi, col passare delle ore in RL, le sensazioni sono cambiate, diventando più complesse. Mille scenari continuano a disegnarmisi nella mente. In questo periodo, Lorella, Lella, Andromeda e Jelena si collegano pochissimo, ma cosa succederà quando cominceranno a collegarsi di più? E i Bane di cui mi sto occupando? Come posso garantire loro l’assistenza necessaria? È vero che il contratto con la Kelley Tech prevede ampiamente che alcuni Operator non siano disponibili proprio a causa di situazioni come questa (dopo tutto, se siamo tutte state dei Bane, un motivo ci sarà pure!), ma cosa succederà quando mi troverò nella situazione di non poter rispondere a un richiamo di emergenza?

rapitainizio_004.jpgFino a questo momento sono stata, come si dice, più realista del re: poiché sono legata, in un luogo chiuso a chiave, ho scelto di non comunicare con nessuno al di là di chi mi dovesse avvicinare in-world. Per questo ho tolto a chiunque – sì, anche alle mie sub – la facoltà di vedermi sulla mappa. Anche quando mi sono trovata l’inventario accessibile, non ho inviato notecard. E anche quando, riloggando, ho scoperto che la bolla che mi teneva prigioniera non tornava a bloccarmi gli IM (palesemente un problema di SL o dello script, o di entrambi) non ne ho approfittato. Eppure, sempre più spesso, sono tormentata dal dubbio: se scopro a un certo punto che posso mandare IM, non mandarli significa essere prigioniera di Francesca o, ancora una volta, di me stessa? E se sono prigioniera di me stessa, allora, che gusto c’è?

commenti su FB.pngPoi sono riuscita a collegarmi per qualche minuto. Francesca mi ha raggiunta quasi subito, raccontandomi ridendo che al WCF ci si chiede che fine abbia fatto… che l’indiziato principale è il famoso francese dei tentacoli (che, poverino, non ho invece mai più visto)… che Luana Umia ha giurato di vendicarmi. Nel frattempo, dallo spy del collare di Jelena ho saputo che anche lei, insieme a Franca, sta cercando di trovare un modo per rintracciarmi… su Facebook e nei commenti al blog (che consulto sempre, anche se non scriverò nulla su questa storia fino a quando non riuscirò a comunicare in qualche modo con l’esterno) ho visto che quel tesoro di Tomiko si è addirittura offerta come ostaggio in cambio della mia liberazione.

E ho capito, o creduto di capire due o tre cose. Una, che per seducente che possa essere, per brevi momenti, il soccombere alla tentazione di arrendermi all’evidenza di una situazione senza uscita, non credo proprio che succederà mai che mi sottometta a qualcuno, nè Francesca nè altri. Tengo troppo alle persone a cui voglio bene per accettare di restarne lontana, e la minaccia di Francesca di impadronirsi di loro, anche se non ci credo nemmeno per un momento, mi fa infuriare al punto che mi sento pronta ad accettare qualsiasi tormento pur di non piegarmi. E questo anche se, nel breve periodo che oggi ho potuto passare online, Francesca mi ha tolto il guinzaglio dalle manette (da cui, ogni giorno, tento di fuggire: e che non ci sia riuscita è solo una questione di occasione e di tempi) e me l’ha attaccato al collare (di cui, a causa di chissà che maledetto plugin, non riesco nemmeno a raggiungere la serratura), rendendo l’eventualità di una mia fuga praticamente impossibile.

rapitainizio_008.jpgL’altra cosa che credo di cominciare a capire ha, invece, a che fare con quella che sono realmente. Tante persone mi vogliono bene e mi fanno grandi complimenti che in genere qui non riporto, ma sotto il cofano della Win che fa o cerca di fare sempre la cosa giusta ci sono le emozioni di un essere umano con lati per niente edificanti. Sono nelle mani di Francesca solo da quattro giorni e già comincio a sentire verso di lei, oltre alla soggezione per il potere che ha ormai sul mio destino, un odio che sta crescendo e in cui mi sembra di riconoscere alcuni sentimenti che provavo, nei confronti di Belias, verso la fine della nostra avventura insieme. Credevo allora che quei cattivi pensieri fossero dovuti alla gelosia – per Belias e per Costanza. Comincio a chiedermi se non fossero, invece, la reazione furiosa di qualcuno che sogna di essere fatta prigioniera senza doverlo chiedere ma poi, quando questo succede, invece di subire la famosa sindrome di Stoccolma, comincia a scaricare su chi ha realizzato la sua fantasia tutta la tensione che la costrizione comunque le impone.

rapitainizio_012.jpgAi tempi di Belias sostenevo di non avere limiti, ma poi ho scoperto di averne anche io. Come tutti. Solo che non voglio ammetterlo, forse per lasciare ai miei interlocutori la possibilità di spingermi oltre. Però questo scarica su di loro tutto il peso delle loro decisioni. A costo, come è accaduto per Belias, che davvero ha saputo farmi sognare, di rovinare il rapporto con qualcuno a cui vuoi bene proprio mentre le dai quello che, hai saputo capire, sotto sotto desidera.

Consideravo Francesca un’amica, ho cercato di starle vicina nel momento difficile della sua separazione da Moltotaku Jewell, ho seguito alcune sue vicende da vicino e con partecipazione… e so che tutto quello che sta succedendo è in ultima analisi una manifestazione di affetto sconfinato. Posso aggiungere anche che, anche se non lo avrei mai confessato, una situazione come quella che sto vivendo sarebbe stata, una settimana fa, una fantasia emozionante. Ma so che adesso, quando la vedo, quando stringe i legami che mi trattengono in casa sua, sempre più spesso l’emozione si mischia con la rabbia, il desiderio di vendetta molto più che quello di fuga. Sento i primi sintomi di quella sensazione che mi portava, alla fine, a fare tutto quello che potevo per ferire Belias più profondamente possibile.

Nell’ultimo anno, tante volte ho pensato che chi mi frequentava e non approfittava del mio relay sempre aperto fosse privo di spina dorsale. Adesso che qualcuno l’ha fatto, scopro di nuovo in me alcuni di quei Bad Feelings che credevo di aver sepolto per sempre. E mi comincio a chiedere se quella che, all’epoca in cui nessuno osava mettermi le mani addosso, giudicavo il frutto mediocre di una malcelata soggezione nei miei confronti, non fosse in realtà l’istinto di chi aveva già capito che Win, sotto sotto, ha un carattere impossibile.

((Non pubblicherò queste parole scritte a caldo fino a quando questa storia non si sarà chiusa in qualche modo, naturalmente. Nemmeno se e quando sarò riuscita a far sapere a qualcuno dove mi trovo e chi mi tiene sotto chiave.))

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Avevo moltissime cose da aggiungere a queste note prima di pubblicarle e qualcosa ero riuscita a buttarla giù ieri sera – ma poi MyBlog ha avuto un crash del server e tutto si è perso nel cyberspazio perché, imprudentemente, avevo scritto tutto direttamente online. Non so se troverò la stessa lucidità di ieri sera, ma qualcosa devo provare a dirla partendo da quel poco che ricordo sul motivo per cui ho scritto queste parole ma ho deciso di non pubblicarle nè di farle leggere a Francesca prima che la storia si fosse conclusa in qualche modo. Volevo, credo, evitare di commettere di nuovo l’errore che avevo commesso ai tempi di Belias – usare il blog per comunicare in modo non diretto con la persona a cui avrei dovuto avere il coraggio di parlare direttamente, facendone la cattiva della storia e rischiando di ferirla. Dopo avermi rapita, qui ci tengo a dirlo, Francesca mi aveva anche chiesto notizie dei miei bane e, quando ha saputo che avrebbero potuto crearsi delle emergenze, mi ha detto che non avrebbe avuto problemi a farmi uscire per occuparmene. Io avevo rifiutato, dicendo che se mi avesse lasciata uscire, anche solo per andare al lavoro alla Kelley Tech, io sarei immediatamente scappata senza più tornare. Non era un rifiuto sdegnoso di una concessione: era un modo per proteggere l’occasione, forse irripetibile, di un rapimento ai miei danni completamente inatteso, non programmato e solo per questo davvero emozionante. Per me, il grosso problema del RP è che se lo negozio prima perde per me di ogni interesse: perché non si perde il controllo decidendo prima le regole. Ma il paradosso è che se non si negoziano le cose prima sono ben poche le persone che si azzardano ad avviare una scena, anche perché poi rischiano di essere additate come pericolose. Un po’ la fama che si era fatta Claven Albatros, eppure in quel caso il torto era stato in ultima analisi di Mystique, la mia amica che cercava una schiavitù sempre più totale, e tuttavia sempre se ne andava poi barando – forse proprio perché non aveva il coraggio di rimangiarsi le richieste che aveva fatto esplicitamente di essere ridotta in schiavitù. Però io, che mi picco di non barare mai, faccio forse di peggio, scaricando su chi mi regala l’emozione del vero rapimento, tutta la tensione di dover capire cosa desidero senza che io glielo dica. Ecco, credo che se avevo scelto di non far leggere a Francesca il testo pubblicato qui sopra, il motivo fosse che volevo costringermi a guardarmi nello specchio, stavolta prima che i miei Bad Feelings arrivassero a inficiare il mio rapporto con una amica che si stava dimostrando audace, affettuosa e deliziosamente perversa. Quando fosse stato il caso, avrei dovuto assumermi direttamente la responsabilità di dirle quando il gioco stava diventando, per me, troppo intenso. Il che poi è successo prima del previsto, ma soprattutto per motivi e con modalità che non avrei mai immaginato, come si vedrà nei prossimi post.

 

Un libro che ho letto

Un post che comincio a scrivere in volo, prima che svaniscano dalla mente le impressioni di un libro che, finalmente, ho letto – e tutto d’un fiato.

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L’aereo su cui sono salita meno di due ore fa sta per cominciare la sua discesa su Casablanca, e so che fra poco le hostess verranno a chiedermi di chiudere il computer, ma ci tenevo a cominciare subito a buttare giù qualche impressione su un libro che ho cominciato mentre stavo decollando da Roma e che ho finito poco dopo che la linea rossa della nostra rotta, sugli schermi televisivi sospesi sopra ai nostri sedili, abbandonasse la costa spagnola per varcare lo stretto e dirigersi verso l’Africa. Sono stata nelle Americhe del Nord e del Sud, in Asia e in tutta Europa, ma sarà la prima volta in assoluto che metto piede su questo continente. E sono una appassionata di Casablanca, per me uno dei film più romantici della storia del cinema, e anche se so bene che è stato girato tutto negli studi della Warner Brothers a Los Angeles, beh, quel nome resta sempre un simbolo di incroci fatali e scelte storiche, un limbo di passaggio fra due continenti lontani, uno snodo fra due vite – quella prima e quella dopo. La prima e la seconda, potremmo dire.

nadira4.JPGForse è per questo che non voglio aspettare di toccare terra per riflettere su Sarka, un libro di cui avevo sentito parlare ormai molti mesi fa ma che, inizialmente, mi aveva lasciata un po’ sospettosa. Per qualche motivo che non so, mi ero fatta il pregiudizio che fosse solo uno di quei romanzi dozzinali che decine di scrittori dilettanti tengono nel cassetto per poi pubblicarli a proprie spese – passando poi anni a sbattersi per propinarli ad amici, parenti e conoscenti occasionali dopo essersene ritrovati sul gobbo un paio di migliaia di copie invendute. Questa idea non mi aveva abbandonata nemmeno dopo aver frequentato per un po’ il blog affascinante (e oggi da tempo chiuso: peccato) di Naadirah Graves, che dell’autore Claudio Forti è stata, credo, amica e guida nelle prime esplorazioni di Second Life, e che in Sarka ha un ruolo non secondario. Naadirah, che di professione fa la escort virtuale, vive la sua professione con l’orgoglio di chi può permettersi di additare senza peli sulla lingua l’ipocrisia degli altri: pur senza averla mai incontrata online, trovavo che le sue considerazioni sul modo in cui alcuni di noi avatar esplorano le loro emozioni nel metaverso fossero particolarmente interessanti, anche se lontane dalla mia esperienza personale. E se una come lei si era prestata a partecipare alle presentazioni di Sarka in world e anche (udite udite) nel mondo reale, forse, significava che in quel libro c’era qualcosa che valeva la pena di esplorare.

PentheusMedium.jpgEppure, per mesi, ho traccheggiato, rinviando il momento dell’acquisto… un po’ forse perché Second Life per me è un mondo così magico che non volevo rischiare una delusione… e un po’ anche perché mi piaceva poco il titolo. Anche se si tratta di un nome boemo, “Sarka” risveglia i miei ricordi del liceo classico: non vado certo a controllare sul Rocci, ma in greco antico sarkos significa carne (tanto che la parola sarcofago, il contenitore di cadaveri, significa, in effetti, divoratore di carne). Ancora oggi ho un ricordo abbastanza vivido dell’epilogo delle Baccanti, che avevo dovuto tradurre dalla versione originale di Euripide, in cui le sfrenate virago eponime giocano a palla con le carni dell’incauto protagonista, Penteo, dopo averlo fatto, letteralmente, a pezzettoni. Insomma, niente di particolarmente piacevole.

A farmi decidere, finalmente, per l’acquisto, è stata una chiacchierata con Mandala Ryba, che invece Sarka me l’ha raccomandato caldamente. Sarà anche questo un mio pregiudizio, ma di una scrittrice che parla bene di un collega tendo a fidarmi istintivamente – tanto più che Mandala, prima che scrittrice RL, è anche lei un avatar e quindi sa bene che cosa significa vivere su Second Life. Ho cercato il libro in alcune librerie e nelle Feltrinelli di Roma, ma non ci sono riuscita (quanto detesto questa politica della Feltrinelli di emarginazione della piccola editoria!), così sono andata sul sito dell’editore Di Renzo e l’ho ordinato.

sarka_027.jpg“Sarka” è la storia di un affermato professionista, l’architetto Marco Farnese, che si affaccia su Second Life per la prima volta e, come tutti noialtri avatar, scopre le sensazioni contrastanti della nascita nel metaverso: il trovarsi all’improvviso ad esistere, adulti nell’aspetto ma infanti nella capacità di muoversi e di interagire, in un ambiente pieno di gente anch’essa all’affannosa ricerca di un senso, una meta o un’identità. E soprattutto, all’inizio, senza conoscere ancora nessuno: a differenza che nella vita reale, quando apri per la prima volta gli occhi su questo mondo di pixel non hai l’appoggio e il conforto di una famiglia che guidi i tuoi primi passi, e devi essere tu a scoprire da sola come si fanno le cose più elementari. È la fase più difficile per chi affronta Second Life per la prima volta: quella in cui moltissimi si scoraggiano e mollano subito prima di affrontare una curva di apprendimento che all’inizio è piuttosto ripida – e che, vorrei aggiungere, sono convinta funga da filtro per evitarci un’invasione di persone senza la motivazione giusta. Perché anche se ognuna di noi lo vive in un modo tutto suo, Second Life non è sicuramente un mondo per tutti.

L’avatar del protagonista, Jozeph, fa un po’ come feci io a suo tempo dopo i primi giorni di esplorazione: si scoccia e se ne va, ma torna dopo un po’ e, stavolta, fa l’incontro che segnerà il suo destino. Sarka è una fanciulla bellissima, ma sappiamo bene che su Second Life questo vuol dire ben poco – quasi tutti hanno un aspetto bellissimo, nel metaverso. Quello che può conquistare è il carattere, e l’atteggiamento di Sarka verso il protagonista è tale da conquistarlo quasi all’istante. Jozeph, e tramite lui Marco, svilupperà per la ragazza una vera e propria ossessione, mettendo a rischio per lei la sua professione e il suo stesso matrimonio.

Voglio dirlo qui e subito: Sarka forse non è un grande romanzo ma di certo è un libro bello, con una voce che suona sincera a tal punto che mi piacerebbe sapere quanto ci sia di autobiografico, nella vicenda del protagonista. La mia esplorazione di Second Life è iniziata in un periodo piuttosto cupo della mia vita e, nel velocissimo sprofondare del protagonista di Sarka nei seducenti gorghi elettronici, ho ritrovato molto della mia esperienza personale. Forse è vero che fra i requisiti per scoprire Second Life deve esserci il desiderio di fuggire da qualche situazione personale difficile e il protagonista annota, lungo la strada, qualcosa che ho notato anche io nei miei due o tre anni di esistenza: tante persone spinte da qualche mancanza personale – mancanza di felicità o di compagnia, di un lavoro, della salute, di persone con cui condividere certi segreti, dell’occasione o del coraggio per esplorare in RL le proprie fantasie. Fatto sta che Second Life può, senza dubbio, arrivare ad assorbirti molto al di là di quel che sarebbe giusto per il tuo stesso equilibrio mentale. Trasformandoti in una drogata che, nei momenti più acuti, può arrivare a mentire per nascondere alle persone a che punto il proprio vizio sia diventato divorante.

AliasNirvana_001.jpgSo che questo, a me, è successo, e che la rinconquista dell’equilibrio è stata frutto di uno sforzo lungo e faticoso, perché anche se mi è sempre stato chiaro che la mia RL era più importante della mia esistenza virtuale, quando ho tentato di rinunciare di colpo a Second Life mi sono accorta che l’idea di chiudere per sempre la porta sul mio mondo dei sogni mi era assolutamente insopportabile. Mi rendo conto che parlo come uno di quegli alcolisti che dicono “Mi chiamo Win e non bevo alcol da due settimane”, aspettando poi l’applauso degli altri membri del club, ma da più di un anno credo di essere riuscita a trovare un equilibrio accettabile che, con qualche sacrificio a volte doloroso, ha rimesso la mia vita reale al primo posto ma mi permette di continuare a sognare, senza abbandonare del tutto gli affetti e le amicizie che ho avuto la fortuna di raccogliere.

Cercherò di tornare sull’argomento (che credo sia strettamente connesso al fatto di essere passata da un ruolo tendenzialmente sottomesso a quello attuale di direttrice di carcere e, diciamo, custode di chiavi) ma stavolta vorrei tornare su Sarka. Una cosa che mi ha colpito è che il protagonista Marco non si identifica col suo avatar Jozeph: anzi, a volte prova persino gelosia nei suoi confronti. Tutto il libro è percorso dalla dualità fra l’avatar e la persona che sta al di qua della tastiera – quella che qualcuno chiama burattinaia, qualcuno picchiatasti, qualcun altro agente… e che Claudio Forti sceglie di chiamare creatore. Per quello che mi riguarda, Win corrisponde al 100% con la persona che le sta dietro e ne costituisce una sorta di estensione (di accrescimento, se vogliamo citare ancora una volta il bel libro “Umanità accresciuta” di Giuseppe Granieri) in un mondo elettronico dove può fare tutto ciò che la RL non le consente. Per Claudio Forti non è così, tanto che a un certo punto scatta per lui la riflessione su cosa significhino, su Second Life, i concetti di maschera e di gioco di ruolo. Ne riporto due paragrafi chiave:

(…) Se in un mondo come quello di Second Life tutti decidessero di rivelarsi non ci sarebbe più gusto. Tutto diventerebbe banale, si perderebbe il senso del gioco di ruolo. Ma per Marco quello non era un gioco di ruolo. O non lo era più. O, forse, non lo era mai stato. Da quando aveva conosciuto lei, Sarka, e l’aveva conosciuta quasi subito, per Marco il senso del gioco, del gioco virtuale, era svanito, sostituito da una ricerca interiore, attraverso la figura di quella donna. Per Marco quello era un percorso iniziatico, una trasmutazione alchemica che avrebbe dovuto portarlo, secondo le percezioni che sentiva profonde nella sua anima, a trasformare le sue paure e le sue angosce in momenti di vera gioia.
Per questo non poteva accettare di quel mondo l’idea di “maschera”: non si era mai, veramente, identificato in Jozeph, mai aveva delegato a lui il compito di rappresentarlo in quella strana realtà. Per lui Jozeph era un intermediario scomodo. Una creatura che non avrebbe potuto aiutarlo veramente , se non permettendo a lui, il creatore, di tornare alla realtà, filtrandola col sogno. Marco non stava affrontando la realtà. E non stava vivendo la dimensione del sogno. Stava cercando di collegare le due parti di quel cavo chiamato realtà, inframmezzandovi una scatola magica, contenente Jozeph, chiamata sogno (…)

Jane80 Luik disegno.jpg

Come sa chi mi conosce, io sono vivacemente a favore della separazione fra SL e la RL: se vogliamo sognare, allora è fondamentale non appesantirci le ali con troppa realtà, e forse sarebbe anche il caso di ridefinire il concetto stesso di gioco di ruolo. Mi è capitato qualche giorno fa di discutere con una prigioniera che al WCF sta vivendo ore molto, molto angosciose perché è stata presa di mira da alcune guardie (il disegno qui sopra è opera sua). Il loro accanimento nei suoi confronti sarebbe ambitissimo da alcuni dei nostri prigionieri abituali, ma per questa particolare prigioniera essere tormentata e tiranneggiata senza motivo apparente si sta rivelando un’esperienza devastante e irredimibilmente sgradevole – alla quale, tuttavia, fedele alla linea (che condivido) di non barare mai, non intende sottrarsi con cheat o con safeword. “Io non ruolo mai”, mi ha detto durante una lunga conversazione in cui mi sforzavo di capire se le sue proteste erano reali o “recitate”. È vero che quando si entra in una prigione – come ben spiegava Stacey Westminster nel suo articolato commento – il punto centrale è che si perde qualsiasi controllo su se stessi, e ci si può aspettare solitudine completa per molte ore, interazione con guardie buone, cattive e in qualche caso anche sadiche o psicopatiche. Ma è anche vero che non tutti si divertono a recitare un ruolo precostituito e qualcuno – come faccio io e come, evidentemente, fa quella prigioniera – si limita a reagire, cercando per quanto possibile di mantenersi coerente, a quello che le accade, per evitare di dettare le regole dal basso.

Questo è ruolare o è essere se stessi anche per interposto avatar? Non saprei rispondere e nemmno mi interessa fino in fondo farlo. Quello che mi sembra chiaro è che il protagonista di Sarka, per esplicita ammissione dell’autore, non fa nè la prima nè la seconda cosa ma si trova a inseguire nella vita reale la persona vera che sta dietro all’avatar. Usa, insomma, il sogno come un mezzo e non come il fine ultimo della sua attività su Second Life. E per questo, secondo me, è condannato fin dall’inizio alla sconfitta.

Non rivelerò il finale del libro, che riesce a trovare una soluzione inaspettata e soddisfacente dal punto di vista narrativo. Ma il meglio di Sarka sta nel fatto che è stato scritto, evidentemente, da qualcuno che su Second Life non si è limitato ad affacciarsi per qualche ora quando era di moda, bensì da una persona che ha saputo capirne la dimensione di ritorno onirico all’adolescenza… e anche di ponte fra le persone al di là delle barriere di età, sesso e distanza. Nel metaverso tutto è possibile: coppie inseparabili che abitano in continenti diversi (separate solo dal fuso orario in una versione cyber-globale dell’Avventura di due sposi di Italo Calvino), sessantenni che dimostrano un terzo della loro età e adolescenti dai capelli bianchi, uomini in avatar femminili e ragazze provviste di attributi che farebbero l’invidia di Rocco Siffredi, gatti antropomorfi, cani porcelloni, draghi dal cuore spezzato. Tutti in grado di toccarsi, reciprocamente, l’anima e farla vibrare. È solo questo, credo, l’unico ponte possibile fra SL e RL. Ma è un ponte che se il sogno si azzarda a cercare di diventare la realtà è destinato a crollare – e a portarsi giù, nel crollo, un bel po’ di roba preziosa.

Quello che adoro di Second Life

A margine di una chiacchierata, qualche sera fa, al carcere di Winsconsin. E dell’incidente cui ho dedicato il post precedente a questo.

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Una delle cose più belle, quando si recupera un po’ di spazio da dedicare a Second Life, è che il lavoro arretrato pian piano si assottiglia e torna la possibilità di passare qualche minuto a conoscere le persone – a volte con qualche RP, altre solo e semplicemente sedendosi lì a fare due chiacchiere. Per questo, qualche giorno fa, ho detto ad Andromeda che il WCF aveva bisogno di recuperare quelle panche che erano installate all’interno della vecchia prigione e su cui molto spesso capitava di accomodarsi per farsi visita, anche le volte che non si aveva nessuno da arrestare.

Mandala_001.jpgLe panche non erano lì nemmeno da 24 ore quando è venuta a trovarci Mandala Ryba, che in questo periodo è nostra vicina di casa in quanto affittuaria di un piccolo lotto non lontano dal WCF. Mandala, nella vita reale, fa la scrittrice ed è una delle pochissime persone che conosco in Second Life che non fa mistero della sua vera identità: è di Torino ed è autrice di gialli e libri fantasy che non vedo l’ora di cominciare a leggere. Non trovavamo mai l’occasione di fare due chiacchiere, così l’altra sera l’ho invitata apposta – anche perché finalmente mi è arrivata a casa una copia di Sarka, un romanzo che da tempo mi incuriosiva e che, grazie all’incoraggiamento di Mandala stessa, alla fine mi sono decisa a comprare.

Mandala_002.jpgNon trascriverò tutta la nostra chiacchierata dell’altra sera – soprattutto perché a un certo punto Mandala ha cominciato a farmi arrossire rivolgendomi complimenti esagerati anche per una egocentrica vanitosetta come me. Voglio però riportare qualche brano della discussione perché ci stava portando su un argomento che mi sta molto a cuore e che, per certi versi, forse spiega almeno in parte la fascinazione che Second Life ha per chi, come noi, ci dedica o ci ha dedicato parte del suo tempo libero.

 

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[2009/11/12 13:45]  Mandala Ryba: ti diro’ il tuo blog e’ affascinante
[2009/11/12 13:45]  Mandala Ryba: molto spesso certe cose non le capisco
[2009/11/12 13:45]  Win: Davvero? Immagino le parti tecniche… quelle in effetti sono solo per, diciamo, gli appassionati di RLV
[2009/11/12 13:45]  Mandala Ryba: esatto
[2009/11/12 13:45]  Mandala Ryba: ma l’insieme e’ veramente ricco di fascino
[2009/11/12 13:45]  Mandala Ryba: mi interessano molto le dinamiche … diciamo sociali
[2009/11/12 13:46]  Win: Mandala, beh… direi che siamo qui soprattutto per quelle dinamiche… da soli, gli script, servono a poco
[2009/11/12 13:46]  Mandala Ryba: ah si decisamente
[2009/11/12 13:46]  Mandala Ryba: e’ quello il fascino
[2009/11/12 13:46]  Mandala Ryba: la profondita’ dell’animo dell’essere umano
[2009/11/12 13:46]  Mandala Ryba: e’ su questo piano che si rivela
[2009/11/12 13:47]  Win: La cosa incredibile se una persona non la prova è quanto su SL, e nonostante la mediazione dell’avatar, vengano fuori le INFINITE sfaccettature delle persone
[2009/11/12 13:47]  Mandala Ryba: si
[2009/11/12 13:47]  Mandala Ryba: condivido questa osservazione
[2009/11/12 13:47]  Mandala Ryba: sl e’ veramente una sorta di prisma
[2009/11/12 13:48]  Mandala Ryba: attraverso il quale le luci di un’anima o di uno spirito, tanto per non badare al sincretismo cattolico
[2009/11/12 13:48]  Mandala Ryba: si divide in mille rivoli
[2009/11/12 13:48]  Mandala Ryba: e qui dove siamo ora mi pare…
[2009/11/12 13:48]  Mandala Ryba: un pozzo diluce ecco
[2009/11/12 13:48]  Win: Io ho una teoria, che vale per Second Life ma anche… uhm, vediamo se riesco a spiegarmi…
[2009/11/12 13:49]  Win: Allora… hai visto il film, “Up”?
[2009/11/12 13:49]  Mandala Ryba: no ma ne ho letto tutto il possibile
[2009/11/12 13:49]  Mandala Ryba: non vado mai al cinema se non so la storia, come finisce e tutto il resto
[2009/11/12 13:49]  Win: Io l’ho visto la scorsa settimana… e la prima mezz’ora ho pianto come non mi succedeva da ANNI, al cinema

[2009/11/12 13:49]  Win: Non ci potevo credere… e anche mio marito si è commosso
[2009/11/12 13:50]  Mandala Ryba: avra’ toccato corde nascoste
[2009/11/12 13:51]  Win: Un po’ sì… se hai una certa età, appunto… insomma, pensi a cosa significa amare una persona, invecchiare… però…
[2009/11/12 13:51]  Win: Ho notato che mi commuovo di più a certi cartoni animati… ma anche se vedo i musical… e mi è venuto in mente che Second Life…
[2009/11/12 13:51]  Win: Cartoni, musical e second life…. hanno tutti un valore metaforico potente… sono un po’ tutti dei… come una realtà stilizzata…
[2009/11/12 13:51]  Lella Demonia dovrà andare a vedere il film
[2009/11/12 13:52]  Win: Vacci, Lella, davvero… prima che lo smontino
[2009/11/12 13:52]  Mandala Ryba: sì, aggiungi che in Second Life si e’ protagonisti di quel cartoon
[2009/11/12 13:52]  Mandala Ryba: e che non sai come va a finire
[2009/11/12 13:52]  Win: La parte centrale è carina ma da bambini… ma i primi venti minuti e una certa scena finale che non ti dico… sono bellissimi
[2009/11/12 13:55]  Win: È la storia di un vedovo che cerca di fare, da solo, quello che con sua moglie non ha mai trovato il tempo di fare
[2009/11/12 13:55]  Win: È un film sulla fedeltà a se stessi, sul rispetto della memoria di chi non c’è più… e sulla necessità però anche di SUPERARE queste cose, perché la vita continua
[2009/11/12 13:55]  Mandala Ryba: .. dovro’ proprio andare a vederlo, suppongo…
[2009/11/12 13:56]  Mandala Ryba: mi piacciono questi messaggi positivi
[2009/11/12 13:56]  Win: Guarda, è DAVVERO bello e anche complesso, secondo me, non ovvio… non la solita cosa tipo “segui la fantasia che ti salverà”
[2009/11/12 13:57]  Mandala Ryba: andro’ a vederlo…
[2009/11/12 13:57]  Win: Però, appunto, come dici tu… su SL siamo noi protagoniste e non sappiamo come finisce…

analiegh_001.jpgQui la discussione ha poi preso per un po’ una piega diversa, ma ci tengo a provare a completare qui il discorso. Per quello che mi riguarda, la fantasia non è solo uno strumento per fuggire dalla realtà ma anche un potentissimo filtro per osservarla da un punto di vista diverso. Un buon romanzo di fantascienza non è letteratura di evasione ma un modo per parlare, sotto metafora, di alcune realtà sociali, politiche ma anche emotive – e basterebbe pensare a quello che un libro come Eudeamon ci racconta sull’animo umano per capire cosa intendo. Una canzone d’amore diventa universale quando riesce a dirti molto senza andare troppo nel dettaglio, aprendosi alla tua storia ma anche alla mia, alla sua, tutte diverse ma tutte con la stessa base comune, che può essere il desiderio di amare ed essere amati, la paura dell’abbandono. la gratitudine dell’esistenza dell’altro. Allo stesso modo, ancora, un capolavoro come UP! non è la storia di un vecchietto che lega la casa a un miliardo di palloncini e fugge da una realtà ormai insopportabile, ma una storia che racconta la necessità per ciascuno di noi di essere coerenti cercando, allo stesso tempo, di non diventare schiavi di se stessi, dei propri ricordi più o meno dolci, delle proprie regole.

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Oggi, gli effetti speciali sono sviluppati a tal punto che una storia come quella di UP! avrebbe tranquillamente potuto essere girata dal vero. Ma avrebbe avuto lo stesso impatto? Io credo di no: perché se, al posto del vecchietto disegnato avessero usato, che so, Jack Nicholson o Morgan Freeman, avremmo avuto un personaggio troppo vicino a (o troppo diverso da) qualcuno che magari conosciamo, o potremmo conoscere. Invece no: il protagonista è un disegno, addirittura un avatar digitale. Una maschera, un segnaposto su cui ciascuno di noi può proiettarsi in modo totale, prendendo quel che ci assomiglia e scartando istintivamente quello che non. Lo stesso, almeno per me, accade su Second Life: dove tutti siamo un po’ quello che di noi riusciamo a trasmettere mediante le parole e i comportamenti, e un po’ (ma non poco) quello che gli altri proiettano, di se stessi, su di noi. Io so di essere Win, ma so anche che la Win che conosce chi la frequenta è in gran parte frutto dell’immaginazione di quelle persone.

Mandala_004.jpgForse anche nella nostra Real Life siamo, in parte, maschere, metafore di noi stessi, protagonisti della nostra storia personale e personaggi collaterali nelle vite degli altri, ma su Second Life questa sensazione è rafforzata dal fatto che la maschera dietro a cui ci nascondiamo – e grazie alla quale possiamo concederci una sincerità maggiore di quella che la vita reale a volte ci consente – è sempre presente ed è impossibile ignorarla. Siamo, appunto, parte di un grande disegno animato del cui esito siamo responsabili solo in parte e che consente – a chi ha la fortuna di sapersi abbandonare alla fantasia mantenendo aperti gli occhi e il cervello – di amplificare la propria capacità di sentire le emozioni. È, di nuovo, l’idea di umanità accresciuta di cui parla Giuseppe Granieri in quel libro che ho letto qualche tempo fa: offrendoci nuove modalità comunicative, Internet non si limita ad eliminare le distanze ma ci espone a, come dice Mandala, dinamiche sociali che in gran parte prima non esistevano, e che tutti quanti scopriamo giorno per giorno, via via che il nostro futuro si trascolora nel presente per diventare subito passato.

[2009/11/12 14:00]  Win: Sai cosa adoro di SL?
[2009/11/12 14:00]  Mandala Ryba: si?
[2009/11/12 14:00]  Win: Che è forte come… che ha la stessa potenza dei migliori cartoni animati, la forza metaforica, no? Però…
[2009/11/12 14:01]  Win: …però non sei schiava di una storia scritta da qualcun altro… la scrivi tu con le persone che incontri, come la vita reale
[2009/11/12 14:01]  Win: Per me questo è dirompente!
[2009/11/12 14:01]  Mandala Ryba: assolutamente d’accordo
[2009/11/12 14:01]  Mandala Ryba: anche se io credo
[2009/11/12 14:01]  Mandala Ryba: che certe potenzialita’
[2009/11/12 14:01]  Mandala Ryba: certe caratteristiche di un avatar
[2009/11/12 14:01]  Mandala Ryba: non possano non essere anche nell’umano dall’altra parte
[2009/11/12 14:01]  Mandala Ryba: magari sono celate
[2009/11/12 14:02]  Mandala Ryba: ma qui deflagrano

nightlellame_001.jpgEcco, qui ho ancora qualcosa da aggiungere. Sicuramente è vero: su Second Life, molte qualità e molti difetti – molte caratteristiche, appunto – deflagrano grazie alla famosa maschera che indossiamo tutti, alla libertà con cui possiamo esprimerci… ma anche a causa dell’opposto della libertà. Vivere su Second Life, infatti, ci sottopone a pesantissime restrizioni comunicative, rispetto alla nostra vita reale: il fatto che su SL i gesti siano, quasi necessariamente, animazioni prefabbricate ci spinge per forza a una stilizzazione. Fra avatar ci abbracciamo molto più di quanto avvenga nella vita reale anche perché, ad esempio, non disponiamo di animazioni più articolate – o non abbiamo il tempo di scrivere un emote che indichi con più precisione il gesto che vorremmo dedicare a una certa persona. Dobbiamo, necessariamente, semplificare – vale a dire, di nuovo, diventare cartone animato, canzone, metafora, stilizzazione aperta all’interpretazione dei nostri interlocutori.

conLorellanew_001.jpgIn tutto questo, l’età apparente dei nostri avatar non è affatto un dettaglio. Il fatto che su SL siamo al 90 per cento giovani, belli (e femmine, vogliamo dire anche questo?) non significa solo che la maggior parte delle persone vorrebbe essere una bella ragazza di vent’anni, ma, credo, anche che l’intensità delle emozioni offerte da Second Life ci riporta direttamente alla nostra adolescenza. Una come me, che ha superato i quarant’anni, ricorda i suoi teen come il periodo della scoperta e messa a fuoco delle proprie emozioni, personalità e sentimenti: l’epoca in cui tutto ti investe, all’improvviso, prima che tu abbia avuto modo di munirti degli strumenti per affrontare l’ondata. Emozioni pure, sconosciute, a volte terrificanti, a volte indescrivibilmente dolci, o tristi o capaci di scatenare furie distruttive. Quando siamo adolescenti siamo più vulnerabili, ancora senza quel guscio che, se da un lato ci permette di sopravvivere ai sussulti della vita, dall’altra un po’ ne attutisce anche le cose belle, riducendo la nostra capacità di meraviglia.

Frinedeserto_001.jpegEcco, credo che per me Second Life sia anche questo: un luogo dove torno ad essere, per un poco, la ragazzina che sono stata fra i miei quattordici e i miei ventiquattro anni. La stessa vulnerabilità, la stessa attitudine a mettere il cuore in gioco in ogni momento. Con, in più, quel poco di saggezza che nei decenni successivi la vita spero mi abbia dato (e che mi ha insegnato a fare il possibile per evitare di ferire gli altri)… e, in meno, la paura del futuro che, all’epoca della mia adolescenza, mi accompagnava ogni giorno. Oggi ho una vita reale che – con gli inevitabili alti e bassi – mi rende ogni giorno felice… e anche questo mi permette, quando il tempo me lo consente, di godermi tramite Win un ritorno a quei tumulti che, venti o venticinque anni fa, mi squassavano in modo invincibile. Qui su Second Life posso giocare a “non sono più tua amica, anzi sì, anzi no” come ho raccontato nei post che precedono questo. Posso giocare di nuovo al gioco della seduzione ben sapendo che, appunto, è un gioco (anche se molto, molto serio) sia per me che per le persone con cui ho la fortuna di condividerlo. Siamo solo avatar, dopo tutto, no? Anzi, fatemi togliere il “solo”, perché il concetto di avatar non è necessariamente solo riduttivo rispetto a quello di persona: è qualcosa di meno ma anche qualcosa di più.

Siamo umanità accresciuta, ma non perché essere un avatar sia più di essere una persona. Siamo umanità accresciuta perché abbiamo saputo cogliere la possibilità di essere, simultaneamente, una cosa e l’altra.