Qualche riflessione sparsa scaturita da un libro avuto in regalo per Natale, da un Dylan Dog segnalatomi da Jelena e dalla nuova edizione della rivista in-world curata da Rossella e Astor.
Non stupirà nessuno se, nei giorni dello shopping pre-natalizio, passati come spesso accade soprattutto in libreria, l’occhio mi è caduto sulla copertina di “Il gioco” di una certa Melanie Abrams: sullo sfondo suggestivo di un tessuto di raso rosso scuro, drappeggiato in modo da evocare una sorta di vortice ipnotico, una fanciulla dal volto seminascosto protende in primo piano i polsi legati strettamente da un nastro scarlatto. Nella quarta di copertina, poi, si leggono frasi come È possibile raccontare una storia di sottomissione sessuale come la storia di un amore vero? Chi condivide le mie stesse passioni sa bene come sia difficile trovare qualcuno in grado di raccontarle senza ricorrere al folklore, al sensazionalismo o ai mezzucci di certi gialli in cui il bondage diventa solo un condimento piccante per una storia tradizionalissima. E penso a titoli che ho letto nel passato come il mediocre “Bondage” di Patti Davis, il thriller “Darkness Bound” e anche “Il maestro di nodi” di Massimo Carlotto, un gialletto deludente nonostante una scena di apertura con una qualche suggestione.
Il problema di solito è che chi scrive di questi argomenti dà l’impressione di non interessarsene veramente. Non parlo solo, o non tanto, di esperienze bondage in RL (chi mi conosce sa che io non ne ho mai provate davvero e che tutto quello che vivo qui su SL è soltanto una proiezione delle mie fantasie) quanto dell’esperienza mentale della sottomissione e del dominio. Sembra un po’ di leggere quegli articoli su Second Life scritti da giornalisti che si sono creati un avatar, hanno girato quattro o cinque giorni e hanno deciso di aver capito di che si tratti – per cui si limitano a snocciolare tre o quattro luoghi comuni in un articoletto che nulla aggiunge alla comprensione di un fenomeno del genere e che tutt’al più servirà a far crescere una curiosità di breve termine in certi lettori (che faranno la stessa non-esperienza rinunciando poi all’esplorazione più approfondita di ciò che il metaverso ha davvero da offrire).
Insomma, “Il gioco” me lo sono fatto regalare e l’ho letto in questi giorni ma, lo dico subito, non mi sento di consigliarne la lettura. La protagonista è una venticinquenne di nome Josie che incontra ad una cena Devesh, un seducente chirurgo indiano, e che da questi viene introdotta, per citare ancora la quarta di copertina, “a un mondo di giochi di sottomissione e dominazione”. Devo ammettere che il modo in cui viene descritto l’inizio del loro rapporto non mi è dispiaciuto: c’è una sorta di colpo di fulmine in cui ciascuno riconosce in qualche modo la potenzialità dell’altro – come se Devesh captasse, da segnali impercettibili ad altri, la tendenza di Josie alla sottomissione, e lei fosse attratta dalla sicurezza autoritaria che l’uomo trasmette. In realtà, almeno al principio, l’elemento BDSM resta fuori dalla storia: Devesh quasi ordina a Josie di andarlo a trovare, ma quello che all’inizio ne scaturisce è un rapporto abbastanza normale – che peraltro l’autrice, forse troppo spaventata dal rischio di cadere nel pornografico, praticamente si dimentica di raccontare… al punto che capita di tornare indietro nella lettura per vedere se non si è per caso saltato qualche passaggio importante. Anche se, un istante dopo il primo bacio, nel capitolo 2, Devesh “le afferrò entrambe le mani e le circondò i polsi con una leggera pressione delle dita. Lei inspirò forte; lui rise”. Anche se, poche righe sotto, lei chiude gli occhi per sentire i capelli di lui e: “Erano salati, ruvidi come corda; si immaginò nuda, con i polsi stretti tra le sue dita, la testa vuota, il corpo elettrico e saldamente piantato nel presente”… beh, nel capitolo successivo li troviamo già parecchie settimane dopo, in una relazione molto tradizionale e di cui non sentiamo affatto l’emozione. Almeno fino a quando lui non le dice (e siamo già al capitolo 4), “stasera facciamo un gioco”.
Voglio dire subito, per mettere nel giusto contesto il mio giudizio, che a me non piacciono granché robe come frustate o sculaccioni. Nemmeno nelle mie fantasie provo alcun tipo di piacere nel dolore fisico – sia nel subirlo che nell’infliggerlo: quello che piace a me è solo il bondage, la costrizione fisica o mentale, e l’idea di infliggere o subire frustate non mi eccita nemmeno un po’ – salvo, in qualche raro caso, su Second Life, dove la sofferenza vera non esiste affatto e qualsiasi forma di tormento ha un suo senso nel mero piacere mentale dell’umiliazione. Per Josie e Devesh, invece, il bondage è essenzialmente un preliminare per dare e ricevere un fracco di botte. Detto questo, non posso negare che il momento cui ho accennato nel paragrafo precedente sia descritto in maniera abbastanza eccitante: il senso istintivo della dominazione, del sentirsi mentalmente obbligata ad eseguire gli ordini di qualcuno perché nella sua voce vibra quel confortevole tono di decisione, beh, quello l’ho provato tante volte, su Second Life. Solo che poi il libro prende una piega diversa perché i giochi fatti con Devesh, almeno in apparenza, sembrano risvegliare in Josie un lato cattivo, a renderla più dura con il bambino semi-autistico di cui è la tata, a farle venire la tentazione di picchiarlo, di frustarlo, di punirlo in un modo simile a quello che la eccita tanto.
Devo dire che già questo sviluppo mi ha cominciato a lasciare perplessa: le fantasie bondage o di umiliazione non mi hanno mai provocato impulsi violenti. Al contrario, ho sempre avuto l’impressione che mi rilassassero molto. Ma in realtà l’autrice sta cercando di preparare una sorpresona narrativa che colleghi il piacere della sottomissione a un desiderio di punizione della protagonista, che senza saperlo sta cercando di espiare una colpa lontana e rimossa.
Sto per rivelare un elemento cruciale della trama, quindi se ancora pensate di leggere “Il gioco” è meglio che saltiate a piè pari questo paragrafo e quello successivo. In uno degli ultimi capitoli Josie, tornata a casa dei suoi genitori in occasione della morte di sua madre, ricorda all’improvviso di aver ucciso, da bambina, il fratellino bebè, cercando di farlo smettere di piangere. Una colpa terribile, dimenticata per tanti anni e che riemerge in un flash di memoria, ed è ad essa che, fin troppo comodamente, l’autrice imputa tutti i desideri di punizione della sua protagonista.
Ma ricordo bene che anche Belias, con la sua Mistress Happytimes, era periodicamente cattivissima. E penso anche a un’altra cara amica che, da appena una decina di giorni, si è liberata dal collare di una Mistress piuttosto infedele ma alla quale è stata estremamente devota e fedele per molti mesi. Anche in lei ho creduto di sentire questo bisogno di ribellione, di sfida e, a un certo punto, di attacco frontale alla padrona. Togliersi un collare non è una cosa facile, nè per chi lo indossa nè per chi tiene le chiavi, e mi sono chiesta se ci sia modo di farlo in un modo indolore. Forse no, perché il collare è un simbolo molto forte e porta con sè significati molto più profondi e complessi della semplice appartenenza, della fiducia reciproca. Eppure, in queste cose, è solo l’istinto che ci assiste – e quando sentiamo che è ora di riavere le nostre chiavi non ci sono regole. Come in amore, bisogna forse essere egoisti. E come in amore, essere egoisti significa spesso far soffrire qualcuno – e non è affatto detto che questo ci impedisca di soffrire anche noi.
Mi rigiro nelle mani le chiavi dei collari che mi trovo in questo momento: Andromeda e Jelena, prima di tutto. Backbuttoned, naturalmente, e non da oggi. E Laziter Twine, che ormai da giorni aspetta il suo destino in una cella della nostra prigione, e lo fa sempre col sorriso sulle labbra. Come Mistress, cerco di fare solo quello che mi gira e quando mi gira – senza pensare di dover essere all’altezza delle persone che ho in mio potere, di doverle sorprendere o di dover ascoltare le loro preghiere. Da un lato voglio che stiano bene con me, dall’altra so che il gioco funziona solo se le decisioni sono mie e soltanto mie – pur nei limiti che devo saper intuire (anche perché se non li intuisco, allora, vuol dire che il rapporto non è ancora chiarito). Le chiavi tintinnano una contro l’altra, scandendo il tempo del nostro presente, riecheggiando un passato già svanito, evocando un futuro che nessuna di noi conosce ancora. Ma, del resto, chi è che lo conosce?
Un’altra lettura dei giorni scorsi, sicuramente meno impegnativa ma pur sempre in tema con queste pagine è stato il numero 267 di Dylan Dog uscito lo scorso dicembre, “Cose dell’altro mondo”. Sono stata una lettrice accanita del personaggio di Sclavi, dal numero uno fino al centesimo. Poi, sia perché Sclavi ne scriveva sempre di meno, sia perché mi pareva che ormai il personaggio si fosse adagiato ina una ripetitività poco stimolante, l’ho progressivamente abbandonato. Ma di questa storia mi ha parlato Jelena, durante le prime settimane del nostro rapporto, dicendomi che aveva a che fare con Second Life e che sebbene non fosse una storia indimenticabile valeva la pena di darci un’occhiata.
Me ne rendo conto sempre di più via via che ci passo del tempo: Second Life sta all’interazione con le persone come l’invenzione del mouse e dell’interfaccia grafica del Mac (subito copiati da Windows) sta al lavoro su una scrivania reale. In entrambi i casi, la creazione di un mondo che assomiglia in modo più o meno stilizzato a quello reale in cui abitiamo 24 ore al giorno, facilita e rende più intuitive ed intense attività che si potevano svolgere anche prima. Sui computer si scriveva e si ordinavano i file nelle directory ben prima che venissero inventate le “cartelle” e il “cestino”, così come si comunicava a distanza scambiandosi testi in tempo reale, con le chat, prima che venisse creata Second Life. Eppure l’invenzione dell’interfaccia grafica per gli home computer, e quello tridimensionale che crea i metaversi hanno cambiato in modo radicale lo spirito e la facilità con cui si fanno le cose, modificando profondamente l’esperienza. E l’esperienza dell’incontro e della conoscenza online sta cambiando di giorno in giorno, alla faccia dei proclami di allarme di chi parla del pericolo della vita virtuale e mette in guardia contro i rischi. Certo che ci sono, i rischi: ci sono in tutto, in quello che conosciamo e in quello che non conosciamo ancora, ma i cambiamenti sono un dato di fatto e tanto vale imparare subito a farci i conti, perché è solo conoscendo e osservando la realtà, non certo rifiutandola a priori, che i rischi si possono mettere a fuoco.
Dulcis in fundo, e per chiudere questo post davvero troppo verboso, segnalo l’uscita del nuovo numero della rivista su cui scrive la mia amica Rossella. La trovate in-world, liberamente scaricabile dal vendor del Lesbian Italian Club, ma altrimenti potete tranquillamente chiedermene una copia e sarò felice di girarvela. C’è un bell’articolo sul Natale ormai trascorso, un articolo sull’inaugurazione del club, consigli per gli acquisti particolarmente adatti a questi giorni di saldi (anche se su SL credo che non se ne facciano!), un concorso letterario e, per chi è interessato (penso a Pedro, in particolare) un dialogo lunghissimo su Gor che, confesso, per ora ho solo cominciato a leggiucchiare ma che conto in questi giorni di affrontare. Visto che siamo alla vigilia dell’Epifania, prima che questo turno delle feste sia esaurito auguro a tutti voi che il 2009 sia pieno di letture stimolanti, di realtà piacevoli – che siano fisiche o che siano virtuali – e soprattutto di belle emozioni.