Unya Tigerfish: Indagine sul Red Zone

A corredo del post precedente circa il GreenZone e il Red Zone, e col permesso dell’autrice (che mi ha contattata in-world per congratularsi della nascita del GreenZone) traduco qui sotto la parte più tecnica del post di Forceme Silverspar: l’indagine di Unya Tigerfish su come (non) funziona il Red Zone e su perché sia uno strumento da combattere. A giorni conto di pubblicare un terzo e ultimo post sulle reazioni alla nascita del GreenZone da parte del creatore del RedZone, zFire Xue. Ma fin d’ora segnalo la nascita di un blog gestito in collaborazione con Forceme e che servirà a segnalare (senza per questo criminalizzarle!) le land che mantengono un RedZone attivo. Il post che segue spiega anche chiaramente come mettersi comunque al sicuro dalla scansione dell’IP. Di mio c’è solo la traduzione italiana, qualche nota e qualche corsivo – e un po’ di fotografie delle preferenze in alcuni Viewers di uso comune: spero saranno utili a qualcuno per sapere che settaggi usare.

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(una visita a Zhora, stamattina: un’area RedZone-Free)

 

REDZONE e la rivelazione degli ALT su SL
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Premessa: l’Anonimato è un DIRITTO!
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Parto dal presupposto che siamo tutti umani… tutti, nel nostro privato, facciamo cose che, qualora fossero rese pubbliche presso tutti coloro che ci conoscono, ci renderebbero la vita molto difficile.

Questo diritto è stato riconosciuto nella maggior parte degli stati, ed è anche parte della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” il cui Articolo 12 dice:

Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

Alcune nazioni:

US:
http://en.wikipedia.org/wiki/Privacy_laws_of_the_United_States#Federal

UK:
http://www.yourrights.org.uk/yourrights/privacy/

EU:
http://en.wikipedia.org/wiki/European_Convention_on_Human_Rights#Article_8_-_privacy

Applicata a SL (o a internet in generale), questa “corrispondenza privata” può estrinsecarsi anche sotto forma di alt su internet. Ci sarà chi ha da obiettare nel sentirmi legittimare gli alt, ma vi prego di continuare a leggere: possono esserci moltitudini di motivi legittimi per farsi un alt: un uomo d’affari (SL o RL) che non desidera sia reso pubblico il suo personale piacere nell’essere costretto a vestirsi da donna… una celebrità che vuole godersi un po’ di esplorazioni senza essere disturbata… un sociologo, per studiare le dinamiche di un gruppo virtuale.

Il diritto alla privacy viene sospeso, in genere, quando è in gioco il bene superiore della società nel suo complesso: lotta alla criminalità, protezione dal terrorismo.

E tuttavia gli alt possono essere usati per disturbare, per distruggere, per infastidire, per scocciare… per abusare della fiducia altrui e imbrogliare. Tutto ciò, naturalmente, non è eticamente accettabile.

Allora, gli alt sono ancora legittimati a esistere?

Sì che lo sono – finché non si possano invocare le situazioni sopra menzionate (pericolo al bene superiore della società nel suo complesso)

Per dirla in poche parole:

Gli alt e il rispetto della privacy sono pienamente legittimi finché proteggerli non venga usato per recare danno ad altri!

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Redzone – lo strumento
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Le funzionalità promesse dallo scanner RedZone si possono vedere qui:
https://www.xstreetsl.com/modules.php?name=Marketplace&file=item&ItemID=1175807

redzone.jpgSono elencate 29 funzionalità, alcune delle quali non corrispondono alla mia analisi effettiva. Si sostiene che sia uno strumento difensivo di protezione: per individuare utilizzatori di copybot, bannare [disturbatori] ed esercitare altre attività finalizzate alla sicurezza. Sebbene, per quanto a me risulta, le funzionalità di sicurezza e di ban non richiedano realmente uno strumento dedicato, e sebbene l’individuazione dei copybot non sia sicura, queste funzionalità, in effetti, corrispondono effettivamente al prodotto venduto.

La riga interessante è questa:

 

“Ban the Alts of people on from your ban list. Not just alts of Copybots. Great for stalkers.”
[Banna gli Alt delle persone nella vostra lista ban. Non solo gli alt dei Copybot. Ottimo per gli stalker]

Al di là dell’uso involontariamente appropriato dell’espressione “ottimo PER gli stalker” invece che “ottimo CONTRO gli stalker“, questa riga sostiene che lo strumento sarebbe in grado di IDENTIFICARE GLI ALT.

Come ho spiegato nella mia premessa, ciò costituisce una violazione di un diritto umano e delle leggi di molti stati se usato in modo indiscriminato. [Aggiunta di Win: Ma vediamo se la promessa è effettivamente mantenuta]

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Come funziona l’individuazione degli alt?
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La questione richiede un breve esame su come funzionano i media su SL. Come forse sapete, i media (audio e video) che vedete o ascoltate in world, non vengono dai server di SL. È invece SL che dice al vostro viewer: “Vai a http:…. agganciati a quello stream di audio o video e fallo vedere qui/ora/in questo modo”

Ad esempio, ogni proprietario di land o anche di un piccolo lotto (parcel) saprà che si può avere una radio collegata a qualsiasi stazione di web radio: contenuti che sicuramente non provengono dalla Linden Labs.

Un ottimo sistema, con l’effetto collaterale che la LL non ha alcun controllo su questo stream.

Il Red Zone ha ora una parte in-world, e una parte su web. La parte web genera un stream di media (video) vuoto, ma ANNOTA gli IP di coloro che vi accedono. La parte in-world si accorge quando qualcuno entra nella zona controllata, prende nota dell’ora e del nome SL e dice al viewer di collegarsi allo stream media. A questo punto il server che genera questo stream conosce l’IP del computer dell’utente.

Mettete insieme tutte queste informazioni e avete una bella lista di nomi SL collegati agli IP.

Se poi l’utente collega un alt dalla stessa postazione, ed entra di nuovo nell’area controllata, lo scanner annota che i due avatar hanno lo stesso IP. Pertanto, stabilisce il nesso seguente: stesso IP = stessa persona = i due avatars sono alt uno dell’altro.

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Precisione dei risultati
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Come avviene con ogni strumento di scansione, i rischi sono quello dei Falsi Risultati Positivi (gente che viene schedata come alt senza esserlo) e quello dei Falsi Negativi (gli alt che non vengono scoperti).

Per capire bene, dobbiamo ricordarci che con questo sistema l’IP viene usato come “identificatore” per un essere umano RL. Ora, che cosa è un IP? Potremmo provare a spiegarlo in modo semplice come un Identificativo Chiamante/numero di telefono che non viene mai soppresso. Qualsiasi cosa facciate su internet, qualsiasi sito apriate, riceve il vostro numero…

Ma l’analogia rivela anche le principali eccezioni:
– una famiglia con più di un computer avrà probabilmente una sola connessione internet centrale, e quindi UN SOLO IP per tutti i computer connessi
– lo stesso vale per la maggior parte delle società.
– lo stesso vale per ogni altro servizio centralizzato e comune, come i cybercafè, università, ospedali…
– qualsiasi area WiFi pubblica o privata avrà un unico IP per tutti i computer che vi sono collegati

Inoltre:
In alcuni paesi (confermato per la Germania e la Gran Bretagna [Nota di Win: anche per l’Italia!]) i Provider Internet usano un bacino di IP dinamici e ne assegnano uno a caso a ciascuna connessione internet privata quando si collegano al provider. Ogni giorno scollegano il servizio per un millisecondo e assegnano alla connessione un nuovo numero casuale dal loro bacino. Questo avviene per prevenire l’utilizzo commerciale degli account destinati ai privati. Pertanto, non è possibile un collegamento reale fra un IP e un avatar di SL: lo stesso avatar ha un IP diverso ogni giorno. Lo stesso IP che in teoria potrebbe essere usato da qualsiasi PC nel network di quel provider (in genere è localizzato per regions: per esempio in Germania l’intera regione della Renania, con 15-20 milioni di abitanti, è gestita così, con gli IP riassegnati casualmente ogni giorno…)

Ancora peggio:
In alcuni paesi (confermato per gli Emirati Arabi Uniti) il provider internet DEVE far passare tutto il traffico da un proxy, per monitorare i contenuti… potete pensarla come volete circa questo controllo, ma il risultato è che TUTTI i clienti di quel provider appaiono avere il medesimo IP (quello del proxy), e pertanto sono identificati come alt uno dell’altro…

Prefs_001.jpgPrefs_002.jpgPrefs_003.jpgSull’altro lato dell’equazione: il metodo usato per raccogliere gli IP tramite il controllo dello stream media fa sì che la gente che ha disattivato i media (o, ancora più semplicemente: quelli che hanno scelto di non cliccare nelle preferenze le caselle che portano espressioni come “automatically play media” [consenti riproduzione multimediale automatica] – “let scripts control my play button” [consenti agli script di controllare i miei pulsanti play], o che al contrario hanno cliccato la casella che dice “turn off media when changing parcels” [spegni i media quando cambio area] non vengono toccati dal Red Zone, in quanto il Red Zone richiede, per collegare una persona a un IP (e quindi collegare gli alt) che questa persona compaia nell’area controllata e si agganci allo stream simultaneamente.

Risultato 1 – alto potenziale di Falsi Positivi

A causa del metodo sopracitato dell’utilizzare gli IP per identificare esseri umani, le situazioni elencate qui sotto avranno come effetto l’errata individuazione come alt di individui distinti:
– in generale coloro che usano cybercafè o simili, poiché lo stesso computer è usato da umani diversi
– 2 individui della stessa famiglia, o anche ospiti e visitatori che accedono al network
– 2 individui nello stesso hotel/dormitorio/ospedale/società/cybercafe/… i cui computer condividono un medesimo accesso internet.
– 2 individui che, anche in tempi diversi, hanno utilizzato un hotspot WiFi pubblico o privato
– 2 individui che usano IP dinamici e i cui IP sono stati scambiati
– un numero infinito di persone che vivono in paesi in cui il traffico internet debba passare da un unico proxy

(Domanda aperta: quanto a lungo conserva gli IP, Red Zone? Più a lungo li conserva, maggiore è il rischio di queste associazioni inesatte…)

Poiché queste situazioni sono tutt’altro che eccezionali, e anzi molto comuni, considero molto alta la possibilità di Falsi Positivi.

Risultato 2 – alto potenziale di Falsi Negativi

È molto facile evitare l’individuazione degli IP/associazione dell’avatar fatta dal RedZone rinunciando semplicemente ad usare l’attivazione automatica dei media. Potete sempre tenervi i pulsanti “play” e usarli quando necessario, per cui le implicazioni circa l’utilità su SL sono ZERO. Fra l’altro, questo tipo di settaggio è anche un mezzo valido e utile per evitare il lag generato dalla scarsità di banda, o sui computer più lenti. Probabilmente anche il vostro rezzing sarà più veloce se vi limiterete ad avviare musica e video dopo aver rezzato tutto, soprattutto se avete poca banda o un computer poco veloce.
Questi semplici accorgimenti basteranno a evitare di farsi leggere la combinazione IP/nome dell’avatar dal Red Zone… e dato che i settaggi restano gli stessi se al prossimo log in utilizzerete, dalla stessa macchina e dallo stesso client, un avatar diverso, eviterete anche l’individuazione dei vostri alt

(ho personalmente fatto prove con un Red Zone per essere sicura che tutto questo fosse vero) [Nota di Win: Anche io ho provato personalmente, insieme ai creatori del GreenZone]

Considero pertanto molto alta la possibilità di Falsi Negativi.

CONCLUSIONI
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1. L’elevata imprecisione del Red Zone fa sì che l’individuazione degli alt sia una questione di pura casualità. Falsi positivi e falsi negativi rendono i risultati casuali e niente affatto attendibili.
2. Utilizzare le informazioni così raccolte (nei casi in cui siano esatte) per qualsiasi fine che non sia la protezione personale è altamente non etico

=> Abbiamo, infine, un prodotto che dovrebbe essere anti-griefer che è più adatto a fini di aggressione (e come tale è stato usato)

(© Unya Tigerfish – tradotto e pubblicato col suo permesso)

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Letture natalizie

Qualche riflessione sparsa scaturita da un libro avuto in regalo per Natale, da un Dylan Dog segnalatomi da Jelena e dalla nuova edizione della rivista in-world curata da Rossella e Astor.

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Non stupirà nessuno se, nei giorni dello shopping pre-natalizio, passati come spesso accade soprattutto in libreria, l’occhio mi è caduto sulla copertina di “Il gioco” di una certa Melanie Abrams: sullo sfondo suggestivo di un tessuto di raso rosso scuro, drappeggiato in modo da evocare una sorta di vortice ipnotico, una fanciulla dal volto seminascosto protende in primo piano i polsi legati strettamente da un nastro scarlatto. Nella quarta di copertina, poi, si leggono frasi come È possibile raccontare una storia di sottomissione sessuale come la storia di un amore vero? Chi condivide le mie stesse passioni sa bene come sia difficile trovare qualcuno in grado di raccontarle senza ricorrere al folklore, al sensazionalismo o ai mezzucci di certi gialli in cui il bondage diventa solo un condimento piccante per una storia tradizionalissima. E penso a titoli che ho letto nel passato come il mediocre “Bondage” di Patti Davis, il thriller “Darkness Bound” e anche “Il maestro di nodi” di Massimo Carlotto, un gialletto deludente nonostante una scena di apertura con una qualche suggestione.

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Il problema di solito è che chi scrive di questi argomenti dà l’impressione di non interessarsene veramente. Non parlo solo, o non tanto, di esperienze bondage in RL (chi mi conosce sa che io non ne ho mai provate davvero e che tutto quello che vivo qui su SL è soltanto una proiezione delle mie fantasie) quanto dell’esperienza mentale della sottomissione e del dominio. Sembra un po’ di leggere quegli articoli su Second Life scritti da giornalisti che si sono creati un avatar, hanno girato quattro o cinque giorni e hanno deciso di aver capito di che si tratti – per cui si limitano a snocciolare tre o quattro luoghi comuni in un articoletto che nulla aggiunge alla comprensione di un fenomeno del genere e che tutt’al più servirà a far crescere una curiosità di breve termine in certi lettori (che faranno la stessa non-esperienza rinunciando poi all’esplorazione più approfondita di ciò che il metaverso ha davvero da offrire).

Insomma, “Il gioco” me lo sono fatto regalare e l’ho letto in questi giorni ma, lo dico subito, non mi sento di consigliarne la lettura. La protagonista è una venticinquenne di nome Josie che incontra ad una cena Devesh, un seducente chirurgo indiano, e che da questi viene introdotta, per citare ancora la quarta di copertina, “a un mondo di giochi di sottomissione e dominazione”. Devo ammettere che il modo in cui viene descritto l’inizio del loro rapporto non mi è dispiaciuto: c’è una sorta di colpo di fulmine in cui ciascuno riconosce in qualche modo la potenzialità dell’altro – come se Devesh captasse, da segnali impercettibili ad altri, la tendenza di Josie alla sottomissione, e lei fosse attratta dalla sicurezza autoritaria che l’uomo trasmette. In realtà, almeno al principio, l’elemento BDSM resta fuori dalla storia: Devesh quasi ordina a Josie di andarlo a trovare, ma quello che all’inizio ne scaturisce è un rapporto abbastanza normale – che peraltro l’autrice, forse troppo spaventata dal rischio di cadere nel pornografico, praticamente si dimentica di raccontare… al punto che capita di tornare indietro nella lettura per vedere se non si è per caso saltato qualche passaggio importante. Anche se, un istante dopo il primo bacio, nel capitolo 2, Devesh “le afferrò entrambe le mani e le circondò i polsi con una leggera pressione delle dita. Lei inspirò forte; lui rise”. Anche se, poche righe sotto, lei chiude gli occhi per sentire i capelli di lui e: “Erano salati, ruvidi come corda; si immaginò nuda, con i polsi stretti tra le sue dita, la testa vuota, il corpo elettrico e saldamente piantato nel presente”… beh, nel capitolo successivo li troviamo già parecchie settimane dopo, in una relazione molto tradizionale e di cui non sentiamo affatto l’emozione. Almeno fino a quando lui non le dice (e siamo già al capitolo 4), “stasera facciamo un gioco”.

ilgiocousa.pngLa frase seguente del romanzo è quella citata in quarta di copertina: “Era la cosa che aspettava da tempo, la cosa che le faceva trattenere il fiato ogni volta che lui le accarezzava la schiena, ogni volta che le slacciava i jeans. Ripeté mentalmente la parola e sentì ardere le guance, poi un senso di ebbrezza vertiginosa, come un’eroinomane al primo irrompere dell’ago in vena: un istante di folle attesa prima di essere sommersi dall’onda. – D’accordo, – disse”. Devesh porta Josie in camera da letto, le lega le mani a una scultura metallica, le fa assaporare a poco a poco la perdita del controllo. E poi la prende a scudisciate, a lungo, in modo doloroso ma, per entrambi, estremamente eccitante. Fino a quando la sessione non si conclude con un rapporto sessuale appena accennato, e con il completo appagamento, da parte di Josie, di desideri antichi e solo in parte confessati nel corso di tutta la sua vita.

Voglio dire subito, per mettere nel giusto contesto il mio giudizio, che a me non piacciono granché robe come frustate o sculaccioni. Nemmeno nelle mie fantasie provo alcun tipo di piacere nel dolore fisico – sia nel subirlo che nell’infliggerlo: quello che piace a me è solo il bondage, la costrizione fisica o mentale, e l’idea di infliggere o subire frustate non mi eccita nemmeno un po’ – salvo, in qualche raro caso, su Second Life, dove la sofferenza vera non esiste affatto e qualsiasi forma di tormento ha un suo senso nel mero piacere mentale dell’umiliazione. Per Josie e Devesh, invece, il bondage è essenzialmente un preliminare per dare e ricevere un fracco di botte. Detto questo, non posso negare che il momento cui ho accennato nel paragrafo precedente sia descritto in maniera abbastanza eccitante: il senso istintivo della dominazione, del sentirsi mentalmente obbligata ad eseguire gli ordini di qualcuno perché nella sua voce vibra quel confortevole tono di decisione, beh, quello l’ho provato tante volte, su Second Life. Solo che poi il libro prende una piega diversa perché i giochi fatti con Devesh, almeno in apparenza, sembrano risvegliare in Josie un lato cattivo, a renderla più dura con il bambino semi-autistico di cui è la tata, a farle venire la tentazione di picchiarlo, di frustarlo, di punirlo in un modo simile a quello che la eccita tanto.

Devo dire che già questo sviluppo mi ha cominciato a lasciare perplessa: le fantasie bondage o di umiliazione non mi hanno mai provocato impulsi violenti. Al contrario, ho sempre avuto l’impressione che mi rilassassero molto. Ma in realtà l’autrice sta cercando di preparare una sorpresona narrativa che colleghi il piacere della sottomissione a un desiderio di punizione della protagonista, che senza saperlo sta cercando di espiare una colpa lontana e rimossa.

Sto per rivelare un elemento cruciale della trama, quindi se ancora pensate di leggere “Il gioco” è meglio che saltiate a piè pari questo paragrafo e quello successivo. In uno degli ultimi capitoli Josie, tornata a casa dei suoi genitori in occasione della morte di sua madre, ricorda all’improvviso di aver ucciso, da bambina, il fratellino bebè, cercando di farlo smettere di piangere. Una colpa terribile, dimenticata per tanti anni  e che riemerge in un flash di memoria, ed è ad essa che, fin troppo comodamente, l’autrice imputa tutti i desideri di punizione della sua protagonista.

Immagine 2.png Immagine 3.pngBeh, se a questo punto non ho chiuso il libro e non l’ho buttato via è solo perché ormai ero arrivata quasi fino alla fine e volevo assicurarmi che non ci fossero ulteriori sorprese (ma ora posso dirlo: non ci sono). Ancora una volta, quella che speravo fosse un’esplorazione dei motivi, magari inspiegabili, che ci spingono a sognare di legare o essere legate, scantonava nell’ennesima storiazza pseudo-freudiana di traumi sepolti negli anni. Francamente, che a Josie piacesse farsi legare e picchiare perché inconsciamente si sentiva in colpa di aver soffocato il fratellino, me ne infischio: io vorrei finalmente leggere una storia in cui si parla di gente normale, come me, gente che non ha mai ammazzato nessuno o non ha traumi degni dell’attenzione di uno psicanalista – e che pure sogna da sempre di sentirsi stringere le braccia dietro la schiena, di essere avvolta da corde, di essere impacchettata strettamente, immobilizzata… e magari coccolata dalla stessa persona. O di fare una cosa del genere a qualcuno a cui vuole bene. Sono una pazza? Lo credevo quando ero piccola, quando non esisteva internet, quando di queste cose non parlava nessuno… quando mi turbavo immaginandomi di essere Bo Derek avvolta nelle spire dell’anaconda in quella porcheria del “Tarzan the Ape Man” diretto da suo marito John… Ma ora so che ci sono, nel mondo, una quantità di persone che, almeno a livello di fantasia, provano quello che provo io… e che ancora non si espongono per paura di essere additate come perverse. Esiste il Gay Pride, ma il Bondage Pride sembra ancora qualcosa da conquistare. E sicuramente non sarà un libro come “Il gioco” a sdoganare in qualche modo il fenomeno, o anche solo a contribuire a spiegarlo a chi non ne fa parte.

Immagine 7.pngTarzan 4.png“È possibile raccontare una storia di sottomissione sessuale come la storia di un amore vero?” Forse lo è, ma di sicuro non ci è riuscita Melanie Abrams. Josie non è normale: è una donna traumatizzata. E Devesh, beh, sarà anche un innamorato tenero e affettuoso, ma l’autrice stenta a farcelo sentire, descrivendolo alternativamente come un seduttore autoritario o una specie di compagno affettuoso e paterno, ma senza mai riuscire a farci sentire dove, al di là dei “giochi” che fanno insieme, stia il nucleo di questo loro “amore vero”. Peccato, anche perché in un certo meccanismo che scatta, verso la fine, nel rapporto fra i due, mi è parso di ritrovare qualche accento di verità – o almeno di qualcosa che riconoscevo.

Immagine 6.pngImmagine 5.pngChe succede, verso la fine? Che mentre i nodi dell’inconscio di Josie stanno venendo al pettine, il suo rapporto con Devesh si incattivisce in un senso non previsto: sempre più spesso lei gli rinfaccia il suo sadismo, cerca di ferirlo, gli dice cose molto cattive, lo inchioda sulla minima defaillance o mancanza, con una spietatezza davvero degna di miglior causa. Si ha quasi l’impressione che gli rinfacci e gli faccia pesare una sorta di vergogna per esserglisi concessa in maniera così totale ed è evidente che lui, ormai innamorato, si trova in difficoltà: a volte annaspa, a volte le dice che quei giochi possono smettere in qualsiasi momento, le ricorda che il rapporto di dominazione e sottomissione è fin dall’inizio basato sulla consensualità. Eppure, nel mostrarsi così arrendevole, perde la sua autorità su di lei e, facendolo, allontana Josie ancora di più. Ora, sarò io contorta, però ho avuto a tratti la sensazione di riconoscere in questo atteggiamento di rivolta verso il proprio dominatore alcuni dei sentimenti cattivi che ho provato verso Belias quando il nostro lungo rapporto si è raffreddato. Ognuna di noi ha avuto senza dubbio le sue colpe: ma mi sono resa conto di avere voluto, in qualche caso, infierire su di lei, costringerla ad ammettere colpe non sempre gravi (come quella di aver legato Backbuttoned quando lei è andata a offrirlesi). Come se volessi metaforicamente ucciderla, forse per riuscire a liberarmi da quella sua autorità che, nel cambiare dei miei desideri, mi risultava sempre più pesante.

Ma ricordo bene che anche Belias, con la sua Mistress Happytimes, era periodicamente cattivissima. E penso anche a un’altra cara amica che, da appena una decina di giorni, si è liberata dal collare di una Mistress piuttosto infedele ma alla quale è stata estremamente devota e fedele per molti mesi. Anche in lei ho creduto di sentire questo bisogno di  ribellione, di sfida e, a un certo punto, di attacco frontale alla padrona. Togliersi un collare non è una cosa facile, nè per chi lo indossa nè per chi tiene le chiavi, e mi sono chiesta se ci sia modo di farlo in un modo indolore. Forse no, perché il collare è un simbolo molto forte e porta con sè significati molto più profondi e complessi della semplice appartenenza, della fiducia reciproca. Eppure, in queste cose, è solo l’istinto che ci assiste – e quando sentiamo che è ora di riavere le nostre chiavi non ci sono regole. Come in amore, bisogna forse essere egoisti. E come in amore, essere egoisti significa spesso far soffrire qualcuno – e non è affatto detto che questo ci impedisca di soffrire anche noi.

Mi rigiro nelle mani le chiavi dei collari che mi trovo in questo momento: Andromeda e Jelena, prima di tutto. Backbuttoned, naturalmente, e non da oggi. E Laziter Twine, che ormai da giorni aspetta il suo destino in una cella della nostra prigione, e lo fa sempre col sorriso sulle labbra. Come Mistress, cerco di fare solo quello che mi gira e quando mi gira – senza pensare di dover essere all’altezza delle persone che ho in mio potere, di doverle sorprendere o di dover ascoltare le loro preghiere. Da un lato voglio che stiano bene con me, dall’altra so che il gioco funziona solo se le decisioni sono mie e soltanto mie – pur nei limiti che devo saper intuire (anche perché se non li intuisco, allora, vuol dire che il rapporto non è ancora chiarito). Le chiavi tintinnano una contro l’altra, scandendo il tempo del nostro presente, riecheggiando un passato già svanito, evocando un futuro che nessuna di noi conosce ancora. Ma, del resto, chi è che lo conosce?

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Un’altra lettura dei giorni scorsi, sicuramente meno impegnativa ma pur sempre in tema con queste pagine è stato il numero 267 di Dylan Dog uscito lo scorso dicembre, “Cose dell’altro mondo”. Sono stata una lettrice accanita del personaggio di Sclavi, dal numero uno fino al centesimo. Poi, sia perché Sclavi ne scriveva sempre di meno, sia perché mi pareva che ormai il personaggio si fosse adagiato ina una ripetitività poco stimolante, l’ho progressivamente abbandonato. Ma di questa storia mi ha parlato Jelena, durante le prime settimane del nostro rapporto, dicendomi che aveva a che fare con Second Life e che sebbene non fosse una storia indimenticabile valeva la pena di darci un’occhiata.

Tempus.pngSono scesa in edicola, ho comprato, ho letto e sono d’accordo con Jelena: scritta da Giancarlo Di Gregorio, “Cose dell’altro mondo” (e attenzione che, anche in questo caso, sto per svelare elementi chiave della trama) è una di quelle storie che appartengono a un preciso sottogenere della collana, quelle in cui si inanellano una serie di follie prive di senso, divertendosi ad infilare un nonsense dietro l’altro, per poi tirar fuori alla fine una specie di deus ex machina narrativo che giustifica e copre, più o meno, qualsiasi invenzione. Ne ricordo una di tanto tempo fa in cui alla fine si scopriva che tutte le follie a cui avevamo assistito altro non erano che una specie di Reality Show di qualche altra dimensione, e la trovata finale di questa storia non è molto diversa: tutto ciò che Dylan vive e vede accade solo in un metaverso che si chiama Tempus ma che è molto simile a Second Life. “Tempus” sta per Totally Enfolding Multi-user Urban Simulation e in una battuta del fumetto si dice che “non è solo una riproduzione fedele della nostra realtà quotidiana, ma una sua versione migliorata… senza dolore, malattie e altre complicazioni”.

tempusmarket.pngAl di là del fatto che nella trama di “Cose dell’altro mondo” Tempus sia essenzialmente un mezzuccio per uscire dal ginepraio narrativo in cui l’autore si è divertito a cacciarci, quella frase mi ha colpita. Da quando sono su Second Life ho sempre fatto molta attenzione a tenere separata la mia vita reale da quella virtuale… ma nonostante questo ho stretto con alcune persone rapporti abbastanza forti da raccogliere e concedere qualche confidenza. E, beh, per farla breve, che la malattia non tocchi Second Life non è vero se non in un senso molto superficiale: una cara amica dei primi tempi di Stonehaven sta male da tempo e, appena una decina di giorni fa, mi ha detto che i medici le hanno dato sei mesi di vita. Cancro al seno. Il precedente padrone della mia adorata Andromeda, a quanto ho capito, è anche lui sparito da Second Life per un male incurabile. Anche Bluezy Bleac, stimata engineer al Banishment Project, ha perso qualche mese fa una cara amica. La malattia c’è eccome, e Second Life ci consente solo di nasconderla con i nostri avatar quasi tutti bellissimi, quasi tutti giovani e sani. Non appena si scava sotto la superficie, però, la vita reale salta fuori – ed è giusto così, perché è la vita reale, i caratteri irripetibili di ciascuna delle persone che incontriamo, l’esclusiva ricchezza che ogni rapporto ci regala… è tutto questo a rendere Second Life ben altro che un semplice videogioco, ma un modo nuovo di interagire e conoscere le persone. Uno strumento che non si limita affatto, come dice chi non la conosce, ad essere una sorta di chat grafica, ma è una vera e nuova forma di espressione aperta a mille possibilità. Per chi, come Jelena, è capace di costruire… per quelle come Andromeda che sono brave a creare vestiti… per gli scripter, per i roleplayer… e addirittura per chi, dopotutto, cerca davvero soltanto una chat grafica.

tempusmora.pngÈ vero invece quello che il fumetto spiega poco oltre: che per qualcuno il metaverso diventa veramente “una seconda occasione per vivere una vita come la si è sempre desiderata” perché possiamo sceglierci le proprie caratteristiche fisiche ma soprattutto perché possiamo scegliere il ruolo che vogliamo interpretare…. morire, risorgere diversi o di nuovo uguali… “come vivere dentro un sogno, con la differenza che qui, il sogno, te lo costruisci tu su misura”. Sempre, e questo il fumetto dimentica di puntualizzarlo, insieme alle persone con cui interagisci, però, perché altrimenti avrebbe ragione chi sostiene che Second Life sia uno strumento che isola le persone invece che un mezzo nuovo di socializzazione. Eppure con un elemento di fantasia potente che in una certa misura permette, per qualcuno, di superare i limiti e le disgrazie della propria vita reale. Fra i miei contatti più cari, ad esempio, ho ben due persone costrette in RL su sedia a rotelle – una sotto costante trattamento antidolorifico dopo aver avuto, qualcosa come vent’anni fa, un terribile incidente che l’ha quasi completamente paralizzata. E ho comprato una giacca, tempo fa, da una simpatica danese il cui avatar la raffigura com’era prima dell’ictus che l’ha colpita dieci anni fa.

Tempusreality.pngIllusioni per sfuggire alla realtà? Sono illusioni anche i libri che leggiamo, allora, e che oggi nessuno pensa mai di accusare di favorire una fuga dal reale (ma lo faceva, a suo modo, Cervantes nel suo “Don Chisciotte”, no?) lo è la televisione davanti a cui tanta gente passa intere serate. E in cosa, in fondo, i rapporti telefonici e telematici con i nostri amici che non vediamo quasi mai fisicamente sarebbero, nella sostanza, diversi da quelli che abbiamo con gli avatar? È una domanda retorica, naturalmente: anche un amico che vediamo di rado è una persona vera, non un avatar, una maschera, qualcosa di creato dalla vera persona con cui stiamo interagendo. Ma è vero anche che nella realtà, in una certa misura, moltissimi recitano una parte… è vero che a tutti è capitato scoprire che qualche amico si rivelava molto diverso da quello che ci aveva fatto credere… ed è vero che non si conosce mai veramente una persona perché, come su SL non possiamo leggerne gli IM, nella vita reale non possiamo leggerne i pensieri o sentirne le emozioni.

Me ne rendo conto sempre di più via via che ci passo del tempo: Second Life sta all’interazione con le persone come l’invenzione del mouse e dell’interfaccia grafica del Mac (subito copiati da Windows) sta al lavoro su una scrivania reale. In entrambi i casi, la creazione di un mondo che assomiglia in modo più o meno stilizzato a quello reale in cui abitiamo 24 ore al giorno, facilita e rende più intuitive ed intense attività che si potevano svolgere anche prima. Sui computer si scriveva e si ordinavano i file nelle directory ben prima che venissero inventate le “cartelle” e il “cestino”, così come si comunicava a distanza scambiandosi testi in tempo reale, con le chat, prima che venisse creata Second Life. Eppure l’invenzione dell’interfaccia grafica per gli home computer, e quello tridimensionale che crea i metaversi hanno cambiato in modo radicale lo spirito e la facilità con cui si fanno le cose, modificando profondamente l’esperienza. E l’esperienza dell’incontro e della conoscenza online sta cambiando di giorno in giorno, alla faccia dei proclami di allarme di chi parla del pericolo della vita virtuale e mette in guardia contro i rischi. Certo che ci sono, i rischi: ci sono in tutto, in quello che conosciamo e in quello che non conosciamo ancora, ma i cambiamenti sono un dato di fatto e tanto vale imparare subito a farci i conti, perché è solo conoscendo e osservando la realtà, non certo rifiutandola a priori, che i rischi si possono mettere a fuoco.

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Dulcis in fundo, e per chiudere questo post davvero troppo verboso, segnalo l’uscita del nuovo numero della rivista su cui scrive la mia amica Rossella. La trovate in-world, liberamente scaricabile dal vendor del Lesbian Italian Club, ma altrimenti potete tranquillamente chiedermene una copia e sarò felice di girarvela. C’è un bell’articolo sul Natale ormai trascorso, un articolo sull’inaugurazione del club, consigli per gli acquisti particolarmente adatti a questi giorni di saldi (anche se su SL credo che non se ne facciano!), un concorso letterario e, per chi è interessato (penso a Pedro, in particolare) un dialogo lunghissimo su Gor che, confesso, per ora ho solo cominciato a leggiucchiare ma che conto in questi giorni di affrontare. Visto che siamo alla vigilia dell’Epifania, prima che questo turno delle feste sia esaurito auguro a tutti voi che il 2009 sia pieno di letture stimolanti, di realtà piacevoli – che siano fisiche o che siano virtuali – e soprattutto di belle emozioni.

Un pomeriggio al cinema: “Martyrs” (2008)

Qualche riflessione scatenata da un film agghiacciante che ho visto ieri alla Festa del Cinema di Roma. Un’orgia di sangue e violenza, ma che per qualche motivo mi ha toccata da vicino. Anche troppo.

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Comincia con una bambina coperta di sangue che, urlando di terrore, riesce a sfuggire da una specie di costruzione industriale semiabbandonata. Prosegue con delle immagini girate in super8 in cui si descrive una stanza buia con una sedia, catene, manette. Ci presenta un’altra bambina, Anna, amica della prima, che si chiama Lucie.

Poi salta avanti di quindici anni, e ci fa ritrovare le due bambine, ormai adolescenti, ancora molto amiche. Lucie tormentata da incubi, armata di un fucile da caccia, decisa a compiere una missione di violenza, forse per sè, forse per qualcosa che la spinge, che la costringe ad agire.

E c’è una tragedia, che dura pochi secondi e sembra esaurirsi lì. Sangue, urla, fucilate, rasoiate, pioggia e poi silenzio. E tu dici argh, mamma mia, che roba angosciante, meno male che è finita. E poi guardi l’ora e ti accorgi che non sei nemmeno a metà. E intanto il film va avanti ancora… l’unica superstite esplora quella casa, scende nel sotterraneo, trova qualcosa di terribile. E all’improvviso tutte le regole cambiano, e diventa un’altra cosa, del tutto fuori dagli schemi dei film di paura. Qualcosa di malato, di davvero orribile, che scava e tira fuori roba davvero tremenda.

 

Ieri pomeriggio ero alla Festa del Cinema di Roma e ho visto “Martyrs” (2008), un film franco-canadese. Sapevo che era un horror, e sapevo che aveva a che fare, almeno in parte, con il tipo di avventure che mi capita di vivere su Second Life. Ma non ero preparata a uno shock come quello che ho provato. Sono ancora scossa. E, beh, non so se consigliarlo a qualcuno perché è un film davvero impressionante. Però chi vuole vederlo, insomma, eviti di leggere questo post: dal prossimo paragrafo rivelerò elementi cruciali della trama. E questo è un film, davvero, da vedere senza sapere prima di cosa parla. Leggete solo, per favore, se non avete alcuna intenzione di vederlo, oppure se l’avete già visto. Magari, per decidere, date un’occhiata ai trailer, prima, okay?

 

La storia del film la ricostruiamo poco a poco. Le scene di Lucie, la bambina insanguinata, sono un prologo che si svolge nel 1971. Si capisce che è stata tenuta prigioniera per settimane da qualcuno che le ha inferto ogni sorta di tormento. Niente di sessuale: ci viene detto molto chiaramente, grazie al cielo, che nessuno ha nemmeno provato a violentarla. Ma è una magra consolazione perché la poverina ha passato giorni incatenata al buio su una sedia, di quelle con la padella per consentirle di fare pipì senza alzarsi. In tutto il periodo della prigionia, è stata presa a schiaffi, presa a pugni e calci, torturata con una lametta in ogni parte del corpo. Non sappiamo chi o perché abbia compiuto una simile infamia, ma sappiamo che ha paura, che è sconvolta e che viene ancora visitata da una specie di mostro che ogni tanto l’aggredisce e la ferisce di nuovo. Ha un’amichetta, quella Anna di cui dicevo prima, che le vuole bene e che non sa come fare per aiutarla.

Quindici anni dopo, le ritroviamo cresciute. Lucie, armata di un fucile, va a fare visita a casa di quella che sembra una famigliola felice, madre, padre e due figli che stanno facendo colazione. Senza pietà, in pochi secondi, abbatte i due adulti e poi, piangendo, urlando “Lo sai cosa mi hanno fatto i tuoi genitori?”, ammazza anche i due ragazzini. Si bagna la mano di sangue e comincia a girare per la casa: “Vedi? L’ho fatto!”… ma la cosa a cui sta parlando a quanto pare non è soddisfatta. Salta fuori all’improvviso e si rivela pian piano: un corpo tumefatto, massacrato di orrende ferite, cicatrici, segni di mesi, mesi e forse anni di tormenti ininterrotti. Le salta addosso, l’aggredisce a rasoiate, a pugni, con una violenza ancestrale.

Martyrs35.jpgAnna, l’amichetta di un tempo, arriva di corsa per aiutare Lucie. Scopriamo che il mostro che aggredisce Lucie non esiste: è frutto della sua mente, della follia scatenata dai tormenti che ha dovuto subire. Ma alla fine è il mostro a vincere, perché Lucie si taglia la gola davanti all’amica che resta sola, in questa casa piena di sangue, di cadaveri e di orrore.

Anna non se ne va, però. Esplora. Trova una botola, la apre, scende sotto terra e trova… trova un dungeon. Un po’ simile a quelli dove su Second Life passiamo tanto del nostro tempo. Un dungeon privato, nella cantina di una casa che da fuori sembrava normale. Ma con un’aria asettica, da laboratorio di esperimenti. Da vivisezione. Agghiacciante. Vuoto. Salvo che per una sedia come quella che abbiamo visto all’inizio: con le manette, il buco per la padella. Una sedia da tortura. E per terra c’è una catena.

La catena si tende all’improvviso. C’è qualcuno. Anna sussulta, poi va a vedere. E nel buio trova un corpo vivente di quella che è stata, chissà quanto tempo prima, una donna. Qualcosa che indossa una cintura di castità, una sorta di cilicio stretto attorno alla vita in modo da mordere a sangue la carne. E, sulla testa, una orrenda morsa di metallo che le copre gli occhi e che in pratica le è stata inchiodata sul cranio in modo irreversibile. Non è più una persona ma una cosa, una macchina per provare sofferenza, ormai incapace di parlare, da chissà quanto tempo.

È stato qui che ho cominciato a sentirmi veramente a disagio. Fino a questo punto, Martyrs mi sembrava un horror… impressionante, ma abbastanza tradizionale. Nell’angoscia mi sentivo su territori conosciuti: una famiglia di psicopatici torturatori, una bambina traumatizzata che cresce e che si vendica.

Martyrsa.jpgMa nel vedere quella prigioniera… nel vedere quell’essere che viveva nel buio, incatenata, da anni e anni, fino a perdere ogni natura umana… beh… non ho potuto fare a meno di pensare a certe fantasie che ho vissuto su Second Life. Essere prigioniera, senza speranza di fuga, nelle mani di qualche aguzzino… un rischio con cui ho flirtato spesso, pur senza mai arrivare a viverlo, nemmeno nel metaverso. Ho preso un po’ di frustate, un po’ di schiaffi… ma sempre da qualcuno che di me, fondamentalmente, si prendeva cura. Eppure ho sempre un po’ sognato di essere catturata e fatta prigioniera in modo irreversibile. Diventare una cosa, perdere la mia identità, essere trasformata, riplasmata, posseduta in modo totale.

Sto divagando, ma sono le rilfessioni che il film mi ha risvegliato. Conosco persone che, su SL, sono diventate oggetti in modo irreversibile. Conosco il fascino di questa fantasia anche se, per me, evidentemente è troppo estrema anche su SL… altrimenti mi sarebbe successo… alla fine mi rendo conto che, anche senza ricorrere alle safeword, i miei limiti li ho scoperti e li sto scoprendo. So di non essere particolarmente estrema, come sub, e di non essere molto sadica come domme. Mi piace il bondage, non mi piace la violenza – anche se devo confessare di aver provato emozioni che non mi aspettavo in qualche caso in cui l’ho subita. In questo film mi sono trovata trascinata in una storia che i miei limiti li trascendeva in modo radicale… gli americani dicono too close to the bone quando una situazione, una storia, un evento ci tocca più da vicino di quello che ci aspettavamo… un po’ troppo vicino all’osso. Ecco, “Martyrs” arriva all’osso… e non si ferma nemmeno lì.

Anna libera la prigioniera superstite… cerca di toglierle i ferri, di lavarla in una vasca… ma anche questa poveraccia è in preda ad allucinazioni che la spingono a comportamenti autolesionistici orrendi. Mentre Anna cerca di aiutarla il film prende la piega più inaspettata e tremenda: nella casa irrompe un piccolo commando che fa secca la donna massacrata, la sbatte in una fossa comune coi cadaveri di Lucia e dei quattro membri della famiglia. Quanto ad Anna, l’acchiappano, l’ammanettano, la portano di nuovo giù nel dungeon, la legano con catene pesantissime, la costringono sulla solita sedia.

Da qui in avanti, tutto quello che succede è un rosario di sofferenze continue. Ogni giorno, Anna viene visitata da un energumeno che le apre le manette, la prende a pugni e schiaffi, la incatena di nuovo. Ogni giorno, viene nutrita a forza da una guardiana che le caccia in bocca cucchiaiate di una sbobba verde dall’aria disgustosa. Giorno, dopo giorno, dopo giorno. Un lavoro metodico, scientifico, per spezzarla. E per tentare di farne, come ci viene detto, una martire.

Una martire? Sì… tutta questa serie di orrori, scopriamo, sono organizzati da un gruppo di persone che da diciassette anni tortura giovani prigioniere per riuscire a portarle a una sorta di ascesi… per cercare di spingerle alle soglie del trascendente in modo che possano, chissà, riuscire a vedere quello che c’è dopo la morte. Il tutto basandosi su una convinzione fondata sulle immagini di alcune persone fotografate un attimo prima della morte dopo lunghissime sofferenze. Quegli sguardi rivolti verso l’alto, ormai quasi sereni dopo che l’orrore ha raggiunto un punto di non ritorno, dopo che la mente e il corpo hanno superato la loro capacità fisica di soffrire.

Tutti sono vittime, dice ad Anna l’orrenda Mistress che le spiega l’operazione (e che sembra essere una degli organizzatori) ma pochissimi sono i martiri. E ad Anna toccherà essere la prima, fra le persone brutalizzate in questa casa degli orrori, a raggiungere quel momento di estasi del dolore – e sopravvivere abbastanza a lungo per comunicarlo a qualcuno. Un’estasi che passa attraverso quelle ore di tormento e, alla fine, e lo dico rabbrividendo di nuovo al ripensarci, addirittura a un completo scuoiamento. Orrore senza fine.

Immagine 1 11-23-22.pngEppure. Eppure, “Martyrs” mi è piaciuto, e ne sono spaventata io stessa… non è uno di quei terribili film pornohorror che detesto… come quelli tipo “Saw” o “Hostel”, di cui non ho mai retto più che una decina di minuti… film che usano la tortura per fare spettacolo, inventandosi sempre nuovi modi per rappresentare la sofferenza. Sarebbe stato così se il regista si fosse messo a mettere in scena torture sempre diverse. Invece qui no: a parte il finale spellamento (che, grazie a dio, ci viene risparmiato nei dettagli, e anche qui si capisce che l’intenzione non è il compiacimento gratuito nella violenza) Anna viene picchiata e torturata sempre allo stesso modo. Il punto non è tanto la messa in scena della violenza in quanto tale, ma solo come mezzo per spezzarla, annullarla, farne una cosa. Ed è questo che mi ha turbata tanto.

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Alla fine, su Second Life, forse mi è capitato di cercare le stesse cose – sia pure per una strada diversa. Ho sempre subito poca o nessuna violenza, e non ho mai usato violenza su qualcuno nemmeno quando, in tempi recenti, ho scoperto che il mio lato da Mistress tendeva a svilupparsi più di un tempo. (Con Useme, forse, sono stata sadica: ma, devo dire, un po’ a forza, sapendo che lui quello desiderava e pensando che, visto che lo derubavo dei suoi soldi, dovevo cercare di dargli quello che voleva… e infatti lui lo ha capito, credo, visto che da tempo frequenta soprattutto un’altra Mistress che, se ho capito bene, è una sadica naturale) Però, ad esempio, nei giorni scorsi ho sbattuto Backbuttoned a Pandora, dove so che le hanno fatto ogni sorta di orrore: le avevo imposto una cintura di castità per proteggerla dal peggio, ma ho la certezza che in quelle celle la povera Back è stata fustigata, presa a schiaffi e a pugni (qui sopra e qui sotto un’immagine del trattamento a cui è stata sottoposta da Darknight, una Warden durissima anche se, OOC, molto simpatica). Non me l’hanno conciata come le protagoniste del film… e la sua sentenza era limitata a una settimana… ma devo dire che sono stata contenta quando l’hanno finalmente rilasciata. Contenta di poterla legare di nuovo io, curarle le ferite, e tenerla sotto un controllo che continuo a considerare una forma di protezione.

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Eppure a Back io ho sempre dato quello che mi chiedeva. Era stata lei a propormi di essere mia prigioniera nelle tre settimane della mia vacanza estiva – io mi ero limitata a bloccarle gli IM e la chat e a ordinarle di scrivere sul blog. È stata Back a chiedere di visitare Pandora – io mi sono limitata a fissare la sentenza (e, per quel poco che potevo fare, proteggerla a distanza spiandola tramite il suo collare e, ogni tanto, parlando con le Warden che se ne occupavano) e a rifiutarmi poi di liberarla in anticipo, o unirmi a lei, pretendendo che vivesse l’esperienza fino in fondo. Ma con un dubbio: è giusto dare a qualcuno quello che vuole? È stato giusto dare a Backbuttoned l’esperienza di Pandora, sapendo che sarebbe stata una sofferenza, che sarebbe stato diverso da quello che lei voleva veramente? Back, ti avevo avvertita che saresti stata sola, senza di me, e succube delle voglie sadiche delle guardiane. backpandhug.jpgTu hai insistito, ma poi, una volta lì, avresti voluto scappare. Sei rimasta perché te lo ordinavo, un’ennesima prova nei miei confronti. Un ennesimo atto col quale ti sei legata a me ancora più strettamente… diventando, fin quando durerà, qualcosa di mia proprietà e a cui ormai tengo.

Vedendo “Martyrs” ho provato emozioni profonde e sconvolgenti. La violenza mi ha scioccata, sì, ma sapevo di potermi tirare indietro e proteggermi pensando “tanto sono solo effetti speciali”. Quello che sconvolgeva non era quello, quindi: era il veder visualizzati i potenziali effetti di quello che potrebbe succedere se le mie fantasie sfuggissero al mio controllo… o meglio… se io diventassi l’oggetto delle fantasie malate di qualcuno. Ho avuto, davvero paura: sia del potenziale aguzzino, sia di me stessa. Cosa cerco davvero? Quali sono i miei limiti? Quali sono le conseguenze delle mie fantasie?

MossTP

La scuola di Chriss Rosca comincia a dare frutti particolarmente interessanti nella sua allieva più devota. Risolvendo un problema annoso per chi frequenta Stonehaven e altre SIM con limitazioni al TP.

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Tanto tempo fa, in una sim lontana lontana… Stonehaven era solo un settore di un’area condivisa con Psi’s Realm e un’affollata land di ragazze francesi. Si chiamava Littlefield, aveva un lag divenuto proverbiale, e capitava spesso di non riuscire a entrarci (come accade oggi al Bondage Ranch). Però ci si poteva teletrasportare in un attimo da un punto all’altro, senza alcun tipo di restrizione. Poi il traffico ha spinto Dirk Massiel e Psi Merlin ad allargarsi, Stonehaven e Snark sono diventate due isole collegate da un ponte, e ciascuna occupa una sim intera. Il lag si è ridotto di molto (a Snark praticamente non esiste più, il che ne fa uno dei miei luoghi favoriti) ma di certo sono aumentate di molto le spese di gestione. E forse è anche per questo che Dirk ha introdotto, a Stonehaven, pesanti restrizioni di TP che impediscono di teleportarsi in scioltezza da un punto all’altro – costringendoti a utilizzare alcuni portali strategicamente piazzati vicino ai punti chiave.

Lo stesso può capitare in numerose sim: per spostarsi da qui a lì si è costretti spesso a camminare a lungo, o magari a volare, sempre che, come accade ad esempio a Villa BDSM, il volo non sia fra le attività precluse a chi non ha sufficienti privilegi. In qualche caso può essere un problema: nei giorni del banishment mi sono beccata non so quante ore di estensione di pena solo perché ho tentato di andare a trovare Rossella. Mi sono teleportata nella sim in cui si trovava, per scoprire che riuscivo solo a materializzarmi a livello del suolo, mentre lei si trovava a 300 metri di altezza. E quando ho provato a volare, il Custodian mi ha punita severamente.

1098064844.jpgL’invenzione che Moss Hastings ha voluto condividere con me, come betatester, e che adesso si può comprare presso il chiosco di Chriss a Stonehaven, permette di aggirare queste limitazioni con un HUD facilissimo da usare. Basta indossarlo (io l’ho messo in alto a sinistra sullo schermo, facendo Attach HUD –> Top Left) e cliccarci sopra. Immediatamente compare un menu con tutti i luoghi memorizzati nella sim in cui ci si trova in quel momento. Premendo il bottone corrispondente, ti compare di fronte una specie di poltroncina evanescente, sedendosi sulla quale si viene trasportati senz’altro alla destinazione desiderata.

Il gadget viene fornito già con tutte le principali location di Stonehaven, ma è facilissimo da configurare per altre sim. Ogni volta che si desidera memorizzare una posizione in cui ci si trova, basta cliccare sull’HUD e, sul canale “/17”, prununciare ad alta voce il nome che si desidera dare a quel punto preciso. Da questo momento in poi, la location viene memorizzata con quel nome come destinazione temporanea (ad esempio: Stonehaven: Patio, seguita dalle coordinate) e resterà accessibile dal menu fino al momento in cui non si farà logoff.

Se si vuole fare in modo che la destinazione resti disponibile anche per usi futuri, la procedura è solo marginalmente più complessa, e ampiamente accessibile a chiunque sappia come si inserisce uno script in un determinato oggetto. Basta selezionare l’HUD con il tasto destro e scegliere il comando Edit per poi cliccare, nella finestrina che si apre, sulla linguetta Content. Fra gli oggetti contenuti nel MossTP, si fa un doppio clic sul documento di configurazione, e si copincolla al suo interno la riga ottenuta, tramite il canale /17, come spiegato nel paragrafo precedente. Ed ecco fatto: quella location resterà fra le destinazioni accessibili dal menu fino a quando non si deciderà di rimuoverla o modificarla.

Non ho ancora finito di esplorare le potenzialità di questo oggettino, ma nei pochi giorni in cui ho potuto usarlo ho scoperto quanto mi sia utile una maggiore flessibilità nel TP. Per ora, ecco quelli che a me sembrano i punti fondamentali:

630703598.jpg1) Teletrasporto libero nelle sim con limitazioni. Poco da aggiungere, anche perché è la funzionalità base: a Stonehaven ora si può balzare dal patio al molo, o dal pub di Beverly alla sala delle gabbie, senza doversela fare tutta a piedi (o chiedere un TP a chi già si trova sul posto).
2) Segnarsi un punto preciso anche nelle sim il cui owner ti proibisce di creare un landmark. La location viene memorizzata nel MossTP come pura indicazione testuale, bypassando quindi qualsiasi restrizione – senza contare il fatto che avere troppi landmark ingolfa l’inventory di oggetti non indispensabili.
3) Scambiarsi le liste delle destinazioni. Basta una notecard e un minimo di copincolla per condividere con chiunque abbia il MossTP la lista delle location fin qui memorizzate per una determinata area. Ottimo se, ad esempio, accompagni qualcuno a Deadend e vuoi evitargli di dover aprire diecimila porte per trovare quella data cella, quel bar, quel letto o quella stazione abbandonata della metropolitana.

Limitazioni? Solo due: prima di tutto occorre trovarsi in una sim che consenta quantomeno il rezzing (materializzazione) di oggetti, altrimenti la poltroncina magica non comparirà. E, ovviamente, bisogna essere in grado di cliccare – niente MossTP, quindi, se qualcuno vi ha tolto l’interazione con l’environment. Guai a chi lo ritiene un difetto. Vi pare che avrei mai potuto segnalare un prodotto che aiuta a barare? ;-)

(Il MossTP si trova in vendita a Stonehaven, nel secondo corridoio dei vendor a destra. Per chi avesse il MossTP, le coordinate precise sono “Stonehaven Island = Chriss+Moss <83,70,11> ;” Lo trovate anche su Marketplace a questo indirizzo)

 

Coprifuoco

Come assicurarsi che qualcuno si trovi in un certo posto a una certa ora anche quando tu non sei online per obbligarlo? Con il “Curfew”, un’invenzione diabolica di Chriss Rosca e di Moss Hastings

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Il giorno dopo il mio ultimo incontro con Useme è stato particolarmente intenso, ma non sono ancora pronta per raccontarlo – ci sono una marea di premesse da fare, e tante cose da dire su due care amiche… Bunny, che è ricomparsa alla ribalta dopo tanto tempo che ci si incontrava solo fugacemente e occasionalmente, e Mystique, di cui non mi stanco quasi mai di parlare in-world ma che qui ho finora citato solo di sfuggita. Nell’attesa di riordinare le idee, qualche nota veloce su un nuovo prodotto che solo da ieri sto finalmente provando a usare, superando l’esitazione dovuta al fatto che ci tenevo a lasciare che fosse la mia Samy80 a giocarci per prima. Ieri, tuttavia, Moss mi ha offerto per l’ennesima volta di occuparsene lei e io alla fine ho ceduto – anche per gratitudine dato che, per premiare qualche mio consiglio molto marginale quando il prodotto era ancora in fase di test, me ne è stato donato un esemplare.

5cd11a0b0f9733887a4a697ada951c1e.jpg3d77d4dcfe4ed1b6bcd9292dd2b9d5c2.jpg53326776cad1055cb14784dbd99269db.jpg7452df28d007a0e8ab4e65961bbda1cb.jpg L’idea del Curfew nasce dall’esigenza di evitare che qualcuno a cui tieni se ne vada in giro a cercare guai nelle ore in cui tu ti trovi offline, rischiando magari di venire rapita dal primo che passa e trascinata in qualche luogo dove tu non sei in grado di recuperarla. Oppure anche solo per accordare alla tua prigioniera qualche ora di libera uscita dalla cella dove hai deciso di custodirla, con la certezza che, allo scadere del tempo, sarà costretta a tornare a casa… L’aspetto è quello di un comune orologio da polso che però, una volta indossato, consente a chi ne detiene le chiavi di stabilire le coordinate precise di un luogo e la finestra temporale desiderata, fissando poi una serie di punizioni molto restrittive se, al momento stabilito, la persona che lo indossa non provvede a farsi trovare nel luogo giusto.

Il luogo (“home“) può essere indicato determinando una maggiore o minore tolleranza: nella versione più generosa, chi porta il Curfew può essere costretto a restare all’interno di una SIM ma essere libera di scorrazzarvi a piacimento pur di non lasciarne i confini… ma è possibile stabilire un range di 100, 50, 10 metri dal punto stabilito… e anche decidere che l’unica posizione accettabile è esattamente quella stabilita (ad esempio, la branda di una cella, una gabbia o anche qualche luogo più imbarazzante)… Quando mancano cinque minuti all’ora dell’appuntamento, il Curfew comincia a mandare un avvertimento ogni minuto e, se non si rispetta il coprifuoco teletrasportandosi  alla home, cominciano a scattare le punizioni – che possono consistere in ogni possibile combinazione fra cecità, paralisi, mutismo, sordità… e le consuete inibizioni di funzioni fondamentali come gli IM, l’apertura dell’Inventory, l’interazione (mediante click) con l’ambiente e via discorrendo…

Tutte queste piacevolezze sono anche disponibili come restrizioni di base: il Curfew garantisce un controllo pressoché totale della persona che lo indossa e sta alla discrezione di chi ne ha le chiavi di stabilire quali siano le restrizioni di base e quali quelle utilizzate come punizione per chi non ne rispetta i comandi. Non lo dico perché Chriss e Moss sono delle amiche: sono convinta che si tratti di un prodotto eccellente e di fatto il dono da parte delle creatrici mi è arrivato, letteralmente, pochi minuti prima che andassi a comprarmene una copia io… Conto di farne comprare una copia a Useme la prima volta che gli metto le grinfie addosso, in modo da stare tranquilla che non vada a farsi derubare da qualche sfruttatrice di moneypig, e che continui a dare i suoi soldi (e il suo tempo, perché devo confessare che comincio a divertirmici sul serio) soltanto a me. Il curfew è disponibile in uno dei vendors di Stonehaven, oppure ancora meglio al negozio che Chriss ha in Pak, vicinissimo a quello di Marine.

1c97c07757fe724b1bdb5a7e8cc80a35.jpg Nel mio caso, Moss che è un’amica si è abbastanza contenuta, e mi ha fissato come “home” una bella torre di guardia sul mare che da qualche tempo sorge a Snark, la terra della misteriosissima Psi Merlin… La scelta è caduta su questo luogo soprattutto perché si trova abbastanza vicino alla gabbia dove Jaron Bailey tiene, in questi giorni, Mystique Aeon, da poco cacciata con ignominia dalla casa di Claven, come sai bene se hai letto il post Nuovi amici qualche giorno fa. Ma quella di me e Mystique è una storia lunga e complessa, e ne parlerò un’altra volta. Nel frattempo, se vuoi venirmi a trovare, considera che – seppure nelle le ore libere posso gironzolare abbastanza liberamente (con le comprensibili limitazioni di non poter toccare nulla: quindi non posso ad esempio aprire porte o usare teletrasporti fisici) – in linea di massima mi trovi nella torre, ad aspettare che il coprifuoco scada di nuovo consentendomi di andarmene. Quella che si vede nella sequenza di foto che si vede qui accanto rischia di essere la mia casa per un po’ di tempo – e mentirei se dicessi che la cosa mi dispiace.

(Prossimamente: Cose da non fare durante il roleplaying)

Eudeamon

Da dove nasce l’idea dei banesuit di Marine Kelley? La risposta in un romanzo straordinario, scritto da una bambola malefica e a tutt’oggi mai pubblicato su carta.

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Il fatto che Internet sia un mezzo di comunicazione praticamente senza filtri è un’arma a doppio taglio: chiunque può facilmente pubblicare qualsiasi cosa senza censure preventive o filtri di sorta… però ciò significa anche che per trovare qualcosa di valido da leggere occorre sciropparsi pagine e pagine e pagine di roba pessima, scritta male, priva del benché minimo interesse. I siti di aspiranti scrittori che propinano le proprie modeste creazioni pullulano in qualsiasi lingua e, in genere, un romanzo disponibile solo in versione elettronica è meglio affrontarlo con beneficio di inventario.

“Eudeamon” è una delle rare, felicissime eccezioni a questa regola. Scritto nel 2005, è rimasto a tutt’oggi disponibile soltanto comeb9191461ffac56a94f1085ec55f35ba4.jpg file Word liberamente scaricabile dal suo sito internet, e credo che non l’avrei mai scoperto se la sua lettura non avesse affascinato Marine Kelley al punto da indurla a creare, per la sua linea di accessori BDSM per Second Life, quei diabolici banesuit di cui proprio in questi giorni sono la vittima volontaria. Ho scambiato qualche mail con l’autrice, che sta pensando di stamparne qualche copia a sue spese, affinché gli amici che l’hanno apprezzato possano averne una copia cartacea. Ma trovo stupefacente che nessun editore si sia ancora fatto avanti per assicurarsene i diritti, perché si tratta di un romanzo avvincente ed emozionante, narrativamente ben strutturato e, nel complesso, scritto meglio di tanta roba che si trova in commercio.

Il genere di appartenenza di “Eudeamon” è la fantascienza – quella vera, che parte da una premessa irreale ma plausibile per poi svilupparla in modo razionale esplorandone le logiche conseguenze. Ed è una fantascienza che combina la lucidità sociologica (e la capacità affabulatoria) di maestri come Frederick Pohl o Robert Sheckley con i temi cari ai pionieri del cyberpunk, da William Gibson a Neal Stephenson. Sarebbe già più che sufficiente per far drizzare le orecchie a una lettrice appassionata, ma confesso che a destare il mio interesse iniziale sono state le implicazioni feticistiche dell’idea che sta alla base della storia. E che lascerei raccontare direttamente all’autrice, traducendo per te qualche paragrafo chiave. Ascolta:

(…)    L’idea era che i criminali, invece di affollare le celle delle carceri, divenissero le proprie stesse prigioni ambulanti. I Bane, come presto vennero chiamati, erano lasciati liberi di vagare per la città come paria. La cittadinanza era tenuta a ignorarli e a trattarli come se non esistessero. In effetti, una persona poteva essere multata anche solo per aver parlato a un Bane–era una Violazione del Bando.  Nessuno poteva trattare un Bane con gentilezza o crudeltà o anche solo riconoscerli in qualunque modo. Tentare di aiutare un Bane o ospitarne uno era un crimine.
    In un tempo sorprendentemente breve, i primi Bane cessarono a tutti gli effetti di esistere agli occhi della comunità di Eudemonia. Essere messi al bando ed esclusi completamente dalla società era considerata una punizione terribile. I Bane potevano osservare la vita attorno a loro ma non prendervi alcuna parte. Non era loro permesso prendere contatto con i loro amici o con la famiglia.  Non potevano entrare in alcuna struttura, pubblica o privata, che non fosse stata prevista a quello scopo. Sensori di prossimità contenuti in ogni abito li avrebbero puniti se avessero anche solo tentato di entrare in qualche struttura o uscire dalle aree designate. Non era loro consentito nemmeno avvicinarsi troppo ad altri Bane, quindi era loro impossibile offrirsi reciprocamente conforto o compagnia. Essere un Bane significava trovarsi sempre solo nel mezzo di una città operosa.
    A rendere le cose peggiori per i Bane, il Banesuit che erano costretti a indossare li privava dell’identità e anche dell’apparenza umana: il volto nascosto dietro a un casco aderente e senza fattezze, i segni particolari celati dietro a una aderentissima seconda pelle di lattice nero. Fatte salve le differenze di genere, peso e altezza, apparivano tutti identici. Il fatto che la stretta aderenza dell’abito al corpo ne rivelasse ogni dettaglio era considerato un’ulteriore umiliazione, poiché apparivano praticamente nudi. I Banesuit proteggevano i prigionieri dagli elementi, ma si diceva che ne desensibilizzassero la pelle. Oltre al contatto con gli altri venivano loro negate anche le sensazioni del proprio corpo.
    Come parte della punizione, ma anche strumento di riabilitazione, la Ashton Technologies–gli inventori dei Banesuit–utilizzavano i più avanzati computer tecno-organici e la nanorobotica. I Custodians. Attraverso una intelligenza  artificiale semplificata, il computer che ciascun Bane portava con sé dentro al casco aveva accesso in qualche modo alle onde cerebrali del prigioniero. Seguendo un rigido codice di regole, il computer Custodian era in grado di ‘leggere’ i pensieri del soggetto e modificarne la conditta applicando punizioni fisiche. Diventava un secondino personalizzato, costantemente intento a osservare le azioni e le intenzioni di un Bane, ammonendolo o impartendogli punizioni secondo necessità. Questo eliminava la necessità di pagare qualcuno che tenesse traccia di tutti i Bane della città; i Banesuit pensavano a tutto. Il prigioniero non poteva farla franca in alcun modo, per quanto potesse essere attento o attenta. Il Custodian era sempre all’erta. Ed era in grado anche di monitorare i segni vitali per individuare possibili problemi di salute (le cure di emergenza erano il solo contatto umano consentito a un Bane nel corso della detenzione). Ignorati dall’esterno e controllati dall’interno, i Bane restavano con una vita che poteva essere solo un incubo semovente. La loro esistenza era un confino solitario e perpetuo.
(…)

Mi fermo qui. L’idea di questo vestito-trappola, capace di isolarti completamente dal mondo e di avere su di te un controllo praticamente assoluto, mi ha provocato fin dall’inizio un fremito di emozione in tutto il corpo, e inizialmente è stato l’elemento principale che mi ha avvinta al computer a leggere avidamente le 91 pagine di “Eudeamon”. Per giunta, la protagonista è un personaggio in cui mi sono identificata immediatamente: Katrina Nichols è una giornalista morbosamente affascinata dal fenomeno dei bane, e decide di avviare un’inchiesta per verificare se non si tratti di una punizione disumana e ingiusta, utilizzata indebitamente per effettuare illegalmente una sperimentazione scientifica su esseri umani.

Per saperne di più, Katrina ricorre a un espediente tipico di certi classici hollywoodiani degli anni Quaranta sui giornalisti d’assalto: d’accordo col direttore del suo giornale e con un collega, riesce a scambiare la propria identità con una ragazza in procinto di essere condannata per prostituzione e aderisce al programma legale che consente, in cambio di un 30 per cento di riduzione della pena, di optare per il banishment in luogo della tradizionale detenzione. Ma non ha fatto i conti con le caratteristiche veramente infernali del banesuit, di cui nessuno parla mai in pubblico… e che rischiano di trasformare la detenzione in una trappola autenticamente irreversibile.

fca722becca88d54a5819252ed9978ce.jpgDella trama di “Eudeamon” non ti dirò altro, perché l’inventiva perversa dell’autrice non si limita a sviluppare coerentemente la premessa, ma prende ben presto una piega completamente inaspettata e sorprendente che va molto oltre la semplice narrazione. La storia di Katrina è avvincente come un thriller ma, come nei casi migliori di fantascienza maggiorenne, è anche (e, in ultima analisi, soprattutto) uno sguardo lucidissimo su temi universali che hanno a che fare con i nostri desideri e le nostre fantasie, con la nostra percezione della realtà, con la definizione dell’identità, con i mille condizionamenti che ci impediscono di manifestare pubblicamente quello che siamo.

Il fatto che l’autrice sia un transessuale probabilmente la dice lunga su quanto i temi sollevati da “Eudeamon” siano da lei profondamente sentiti: eppure quasi mai si ha la sensazione che il romanzo perda di vista la sua lucidità di sguardo per diventare predicatorio. La possibile lettura metaforica scaturisce naturalmente dal racconto, senza la minima forzatura. E la vicenda mi ha trascinata fino all’ultima pagina attraverso una serie di emozioni che davvero non mi aspettavo di provare con tanta intensità: la paura e il desiderio del bondage, che permea tutta la prima parte, si trasforma in un senso di disperazione e di accettazione della schiavitù, per poi riservare la sorpresa di sviluppi commoventi, pieni di gioia, addirittura esaltanti… ma anche di elaborazione del lutto, desiderio di vendetta, e in ultima analisi solidarietà, amore per il prossimo, desiderio di condividere i doni più straordinari della vita – almeno con chi ha il coraggio di affrontare a viso aperto i propri desideri più segreti.

Non posso davvero dirti altro senza rovinarti l’esperienza. Ma se stai leggendo questo mio diario sospetto fortemente che tu sia il lettore ideale per questo libro. Spero che tu sia in grado di leggerlo in inglese, perché nessuno ancora l’ha tradotto. Lo trovi a questo indirizzo:http://www.evil-dolly.com/Eudeamon.doc

Ti prego, leggilo e fammi sapere cosa ne pensi. Davvero, vorrei discuterne con qualcuno che sa di cosa sto parlando. Magari in un post successivo, destinato solo a chi l’ha già letto e in cui non sia costretta a fare salti mortali per evitare di spoilerare quello che succede.

Buona lettura,

la tua Win

(prossimamente: Pasqua da bane