Mille giorni

Un post scritto di getto, dopo aver ricevuto auguri che non mi aspettavo. E che mi hanno fatto ripensare a cosa cercavo quando ho creato il mio account su Second Life. E a cosa, invece, ci ho trovato.

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Io non me n’ero accorta per niente. Se ne sono accorte Daid5 Pontecorvo e Franca Poper, che ieri sera mi hanno fatto affettuosamente gli auguri: oggi compio 1000 giorni di Second Life. Un anniversario che cade, abbastanza curiosamente, a pochissimi giorni dal compimento del mio primo anno con Andromeda e che, come tutti gli anniversari, non ha alcun significato reale ma certamente ne ha uno emotivo. Sebbene molti di questi 1000 giorni non li abbia passati in-world, mille è sempre un numero tondo, grosso, suggestivo – anche se non ci si mette nello stato di chi pensava che il mondo sarebbe finito col primo millennio.

casaclelia_001.jpgHo solo un vago ricordo di quando, mille giorni fa, mi sono collegata al sito di Second Life e ho deciso di provare a creare un mio avatar, ma quello che ricordo molto bene è l’idea originale – quella che ancora oggi mi condanna a portarmi dietro un nome lungo, quasi impossibile da digitare senza fare errori e che, per giunta, continua a mandare in crisi alcuni degli script meno sofisticati. Da poco avevo letto l’affascinante “Snow Crash” di Neal Stephenson, e avevo tanto sentito parlare di questa Second Life che mi sembrava fosse giunto il momento di provare a entrarci. Sapevo solo che, una volta collegata, sarei stata chiamata a creare una specie di pupazzetto elettronico, a dargli una forma e un carattere, e poi a vivere una vita virtuale e andare in giro ad esplorare un mondo creato dagli utenti. Ci ho pensato un po’ su e ho deciso che, beh, se questa doveva essere una seconda vita, tanto valeva che in essa potessi diventare qualcosa che non ero nella realtà. La mia Seconda Vita sarebbe stata una sorta di elaborato gioco di ruolo, in cui avrei interpretato un personaggio di mia invenzione e sarei rimasta a vedere che cosa gli succedeva.

Pedro!_001.jpgMi ero sempre chiesta come sarebbe stata la mia vita se fossi nata maschio, per cui la mia prima scelta fu quella di creare un avatar uomo. Ma non mi bastava: volevo qualcosa di ancora più lontano da me e avevo deciso di diventare un personaggio detestabile. I motivi, francamente, ancora non me li so spiegare, ma posso fare una ipotesi: se avessi creato un avatar dal carattere predefinito avrei avuto delle regole da seguire nella mia interazione con gli altri… avrei avuto un ruolo in un mondo che ancora non conoscevo e che quindi mi intimidiva. Essere antipatica mi sembrava più facile che cercare di capire cosa potevo e non potevo fare. E poi, se fossi stata antipatica e spocchiosa avrei potuto liberarmi da un impulso che so di avere, nella vita reale: quello di farmi voler bene da tutti. In qualche modo, un personaggio odioso, e per giunta maschio, mi avrebbe resa totalmente libera dalla me stessa reale, pronta per iniziare, veramente, una Seconda Vita che non si sovrapponesse alla mia vita reale in alcun dettaglio.

Belias_001.jpegFra i cognomi disponibili in quel periodo sul sito di Second Life scelsi Zinnemann per vari motivi – un po’, forse, perché iniziava con l’ultima lettera dell’alfabeto, un po’ come omaggio a un regista americano ma di origini europee che aveva fatto, in tarda età, un bellissimo film sulla montagna. Ma anche e forse soprattutto perché, nella lista dei nomi, era quello che suonava più roboante e adatto al personaggio che avevo in mente. Per caricare ancora l’effetto volevo avere un doppio nome di battesimo. Il primo, Winthorpe, lo scelsi pensando al personaggio di Dan Aykroyd in “Una poltrona per due”: un figlio di papà presuntuoso, spocchioso, che sarebbe da prendere a schiaffi dalla mattina alla sera (e che infatti nel film ne passa, meritatamente, di tutti i colori).

foghorn.jpgPer il secondo nome, ricordando la mia antica passione di bambina per i cartoni animati della Warner Brothers (molto prima, naturalmente, che le disavventure di Penelope Pitstop cominciassero a formare il mio gusto per corde, trappole e bavagli), ricorsi al personaggio di Foghorn Leghorn: mi piaceva il suono rimbombante della parola Foghorn e, considerata la mia tendenza a chiacchierare troppo, anche il suo significato di “corno da nebbia”… ma credo di essere stata attratta anche dal fatto che Foghorn è un gallo. Usare il suo nome, pensavo, avrebbe rafforzato un poco la credibilità mascolina del mio personaggio – o quantomeno avrebbe aiutato me a crederci un po’ di più.

Ma la vita, dice il saggio, è quello che ti succede quando fai altri piani. Una volta creato l’account, e dopo essere atterrata per la prima volta, come tutti noi il primo giorno di Second Life, alla Help Island, impiegai quasi una settimana nel tentativo di dare al mio avatar un aspetto fuori dal comune. Mi feci subito crescere la barba (ma la tinsi di verde) e poi mi misi a cercare luoghi dove cominciare a recitare il ruolo che mi ero scelta: di un avatar supponente, arrogante, egoista, superficiale e vanitoso.

Lorellatornata_001.jpgDurai due, tre giorni. Forse nemmeno tanto. Ricordo che andai alla presentazione di un libro (e rimasi stupitissima – anzi, stupitissimO – nello scoprire che quando ci si scollega da Second Life il proprio avatar scompare nel nulla) poi in giro per varie sim, prima italiane e poi, quando vidi che lì il cazzeggio era tale da affogare anche qualsiasi mio tentativo di farmi notare comportandomi da stronza, in qualche sim di lingua inglese. E poi mollai, come mollano gran parte delle persone che si affacciano su Second Life con una lista della spesa.

Rimasi nel non essere per mesi. Quell’inverno finì, passarono la primavera, l’estate e l’autunno, arrivò un altro inverno e, con esso, una influenza che mi bloccò a letto per qualche giorno. Non avevo voglia di leggere, vedere la televisione, come sempre, mi rendeva irritabile e frustrata. Riaccesi il computer, mi dissi: “Bah, vediamo un po’ di farci un giro su Second Life“.

Jelena_003.jpegMi ritrovai nella pelle di WinthorpeFoghorn, quel barbuto che non aveva nemmeno saputo distinguersi per la sua antipatia, quel personaggio finto che avevo voluto creare per chissà che motivo e che forse stava troppo antipatico anche a me per meritare di succhiare parte del mio tempo. Cominciai a usarlo come puro veicolo, per rimbalzare da una sim all’altra. E poi… davvero, può sembrare una balla ma davvero non ricordo cosa successe. Non so cosa avvenne prima: non ricordo quando scoprii che su Second Life potevo esplorare fantasie che non avevo mai confessato a nessuno, e non ricordo quando decisi di restituire al mio avatar il sesso che avrebbe dovuto avere fin dall’inizio. Ricordo vagamente che non presi nemmeno in considerazione l’idea di buttarlo via per crearne uno nuovo: si chiamava Second Life, non Third Life, e avrei dovuto cambiare quello che potevo cambiare senza ripartire da zero, perché anche gli errori che abbiamo commesso sono parte del nostro passato. Anche WinthorpeFoghorn, il barbuto antipatico, in fondo in fondo in fondo, qualcosa di mio evidentemente doveva avercelo. Chiamatela scaramanzia, chiamatela come vi pare. Ma non potevo ucciderlo.

Samydomme_004.jpgHo cominciato a gironzolare, a osservare, ad ascoltare… con molta più timidezza ho cominciato a parlare, pian piano, a tentoni, provando a capire dove e come potevo inserirmi, con chi potevo fare amicizia e, quando ho cominciato a capire davvero cosa potevo combinare in questo strano mondo, dove dovevo andare per mettermi nei guai. Senza recitare un personaggio deciso a tavolino, però, bensì comportandomi come il mio istinto e la mia personalità mi suggeriva a seconda della situazione e – beh, di quella che a volte chiamo “coerenza del ruolo” ma che, di fatto, è solo coerenza (anzi un tentativo di coerenza) tout court. Capii piano piano che il mio errore, quando avevo deciso di entrare in Second Life con un ruolo da recitare, era stato illudermi che questa fosse una sorta di festa mascherata in cui ognuno recitava un ruolo. Ci ho messo settimane a capire che non era così ma che era, invece, un luogo dove, protetto dietro alla maschera di un avatar, ciascuno poteva vivere i suoi sogni, o i suoi incubi, purché fosse disposto ad abbandonarvisi con tutta la sincerità emotiva di cui era capace.  Perché recitare è divertente, senza dubbio, ma non si può recitare per sempre. E l’interazione fra le persone diventa possibile, interessante e preziosa solo quando lasci che le persone vedano come sei veramente, nel bene e nel male, e che, se lo vogliono, ti vogliano bene per quello che sei davvero.

Strom26_001.jpgQualcuno, credo a Stonehaven (ai tempi a cui risale questa vecchissimissima foto, che mi ritrae con l’amico Zahnbuerste Strom) cominciò a chiamarmi Win. “I have a long name, and Win is shorter”, spiegavo, quando i miei nuovi amici mi chiedevano se era okay usare quel diminutivo, e rilanciavo, sentendomi molto spiritosa: “and I also like that Win sounds like a lucky name: so it’s a Win-win situation”. Ecco, se WinthorpeFoghorn ha compiuto oggi 1000 giorni, Win probabilmente non ne ha ancora più di 7/800 ma, alla fine, è stata davvero lei a vincere. Nella vita reale non sono alta due metri e venti, non porto un fiore bianco su un caschetto di capelli rossi e ho passato ormai da un po’ di tempo quei vent’anni o giù di lì che dimostro su Second Life: ma il mio carattere è quello di Win, non quello di quel detestabile WinthorpeFoghorn Zinnemann che Win ha saputo, per fortuna, legare e imbavagliare in qualche profonda segreta. Buttandone via, per sempre, la chiave.

Essere o non essere

Riflessioni di fine estate: sugli addii e sulle assenze, sul logoff e su come la vita nel metaverso ci cambia, forse preparandoci in anticipo ad alcune novità imminenti o già parte del nostro quotidiano.

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Avendo quest’anno suddiviso le vacanze in due diversi scaglioni, ed essendo poi dovuta partire per una decina di giorni per motivi di lavoro, nell’ultimo mese e mezzo mi è capitato già tre volte di assentarmi da Second Life per periodi di una settimana o più. Ogni volta mi sono trovata a dover risolvere, prima di “staccare”, una serie di situazioni: liberare certi prigionieri occasionali, sciogliere alcuni nodi emotivi, chiudere certi discorsi rimasti aperti, rinviarne altri. E salutare: salutare le persone che vedo più spesso, ma soprattutto Andromeda, Jelena, Lella e Lorella.

lellajelverdi_002.jpglellajelverdi_003.jpglellajelverdi_001.jpgQuando ti allontani solo una volta l’anno non ci fai troppo caso, ma quando succede tre volte in così poco tempo (tre volte a cui si aggiungono, per giunta, le vacanze RL di Andromeda prima, e di Jelena – in viaggio di nozze RL – e Lorella poi) cominci ad essere in grado, se non ad analizzare, a poter almeno osservare in modo più accurato le emozioni che provi nel momento in cui prepari il distacco. Dice un proverbio che partire è un po’ morire, ma quando ti trovi su Second Life questa frase fatta acquista immediatamente un significato molto più letterale, riportandoci al dilemma del buon vecchio Amleto, citato spesso a memoria senza coglierne la spettacolare, perfetta, bellezza. Essere, o non essere.

È la trappola infernale di Second Life, quella di cui si parla poco ma di cui siamo consapevoli tutte noi che, almeno una volta, ci siamo trovate travolte da qualche conversazione o qualche avventura e trascinate nel profondo della notte, senza vedere più l’orologio, senza più pensare a che ora suonerà la sveglia: facendo l’una di notte, le due, le tre, magari le quattro di mattina o anche peggio. Quando sei coinvolta, non stacchi, non vuoi staccare, non puoi staccare. Perché staccare significa spegnere, sparire, scegliere il non essere. Quando ci scolleghiamo da Second Life, il nostro avatar non rimane lì, fermo, a esistere sia pur passivamente… come facciamo noi quando nella realtà dormiamo. Quando ci scolleghiamo da Second Life, e ce ne accorgiamo bene quando capita a qualcun altro che resta vittima di un crash improvviso, semplicemente il nostro avatar scompare, si dissolve senza lasciare traccia. Cessiamo, letteralmente, di esistere. E anche se, al nostro ricollegarci, saremo ancora in quel luogo preciso, in quella stessa gabbia, o letto o salotto, la vita di SL sarà andata avanti senza di noi. Potremmo ritrovarci sole dopo esserci scollegate in compagnia. Potremmo ritrovarci in una compagnia inattesa. Ci troveremo, sempre, a dover gestire il piccolo enorme shock di essere di nuovo ammesse all’esistenza dopo un periodo di nulla assoluto. L’essere, dopo il non essere… ma un essere che deve riprendere il ritmo con un mondo che è andato avanti senza di noi.

Se su Second Life stai vivendo, ogni volta che premi il tasto “quit” senza aver detto “brb” (be right back, torno subito) scegli di non esistere e questo è vero soprattutto quando sai che non potrai ricollegarti per un pezzo, come succedeva qualche decennio fa se si partiva per luoghi distanti. Allora, forse, partire era più morire di quanto non sia diventato negli ultimi anni. Oggi possiamo andare dall’altra parte del mondo e portare con noi il cellulare per riattivare in modo istantaneo i rapporti con i nostri cari. Possiamo vederli, con un Internet Café e Skype, con Facebook o in mille altri modi, perché rispetto a, che so, appena quindici anni fa, abbiamo conquistato nuovi modi di comunicazione istantanea. Che hanno cambiato, e continuano ogni giorno a cambiare, non solo il modo in cui ci rapportiamo con il nostro prossimo, ma anche il modo in cui vediamo noi stessi e definiamo la nostra identità. Siamo, e saremo sempre più, una umanità accresciuta: una stirpe a cui le nuove tecnologie regalano costantemente nuovi poteri, tanto che, rispetto a chi è venuto prima di noi (le generazioni precedenti, ma anche i noi stessi di qualche anno fa) siamo paragonabili a supereroi.

granierilibro.gifÈ la tesi di un libriccino interessante che ho letto in spiaggia in una mattinata della settimana scorsa: si intitola per l’appunto Umanità accresciuta ed è opera di una persona, Giuseppe Granieri, che dimostra di conoscere bene ciò di cui scrive. Fra tante articolesse su Second Life i cui autori, è palese, avranno dedicato a SL sì e no qualche ora, ecco invece un intero saggio che pullula di spunti interessanti sulle implicazioni sociali ed emotive dei mondi virtuali (o, per seguire la lectio dell’autore, che rifugge da una parola così generica e sputtanata, “mondi metaforici”). Ne consiglio senz’altro l’acquisto a chi, come me e, immagino, chi segue queste pagine, può capire fino a che profondità Second Life possa modificare non solo o non tanto i nostri comportamenti RL ma il nostro modo di porci nei confronti della stessa realtà.

Io che sono un’appassionata di cinema noto questa differenza soprattutto quando vedo film o immagini sullo schermo del computer. Non so quante volte, vedendo una fotografia, provo l’impulso di spostare il punto di vista per avvicinarmi a un dettaglio, ruotare attorno al soggetto o magari arretrare per far entrare più sfondo. Lo stesso su certi film meno coinvolgenti e nei quali vorrei poter essere io a muovere la “camera” a mio piacimento. In un certo senso, cinema e web sono anch’essi mondi metaforici (anche se rispetto Second Life non hanno la possibilità dell’interazione diretta con altre persone/avatar) e forse è per questo che la tendenza alla confusione fra questi mondi viene più facile. Eppure chi non ha desiderato, qualche volta, potersi tippare da un luogo all’altro nella RL?

L’esempio, a ben pensarci, è mal scelto, perché le probabilità che il teletrasporto RL sia inventato davvero sembrano, ad oggi, praticamente nulle – eppure molte cose a cui SL ci abitua sono in realtà a portata di mano in determinati contesti. Per dire, in questi giorni mi trovo a lavorare a un Festival dove praticamente tutte le persone che incontri ovunque tu vada portano al collo l’accredito, una tesserina che serva ad accedere a questa o quella proiezione o a determinate aree riservate, e sulla quale appare la foto (l’avatar!) e il nome. Non ci avevo fatto caso in passato, ci faccio caso oggi: quando scambi due parole con qualcuno, ci vuole un attimo prima che il suo sguardo saetti al tuo tesserino per sapere chi sei, perché a differenza che su Second Life, nella vita reale non andiamo in giro col nostro nome in evidenza su una scritta che fluttua qualche centimetro sopra la testa. Dall’accredito si vede anche che ruolo hai – gli accrediti “Cinema” danno un accesso inferiore a quelli “Periodici”, che a loro volta sono più deboli di quelli “Daily” – e quindi basta un’occhiata al colore per capire a che gruppo appartieni… in pratica, una versione supercondensata del profilo.

Andromedadawn_001.jpegAbbraccioJelena.jpgLorellanewhome.jpgDel resto, durante un festival vigono anche una serie di codici di abbigliamento più o meno codificati che contribuiscono, più che nella vita reale, a identificarci rispetto agli altri frequentatori: per certe categorie di frequentatori giovani può bastare la scelta oculata di una maglietta per segnalare la propria preferenza per questo o quel regista (come nelle Picks), altre si affidano a messaggi più complessi e sofisticati, fra il range degli elegantoni volgari da red carpet agli spettatori kulturny più o meno sofisticati, giù giù fino ai trasandati emuli dell’ultimo Enrico Ghezzi. A un festival, più che altrove, ognuno indossa e porta in giro un suo avatar che serve ad aiutare gli interlocutori a definirlo e a facilitare incontri, conoscenze e nuovi rapporti.

È vero, succede anche nella vita di tutti i giorni, e forse è solo l’uso massiccio di Second Life che mi fa notare questi particolari. Quindi chiudo la divagazione e torno all’argomento che mi sta a cuore in questi giorni. Giorni in cui io non esisto, perché mi collego nei rari momenti che ho un attimo di tempo libero dal lavoro, e mai abbastanza a lungo per fare qualcosa di più che dire “ciao”. È un saluto veloce che, non posso fare a meno di confessarmelo, è in realtà un “ehi, guardate che io esisto ancora” – rivolto, forse più che alle persone a cui voglio bene, a me stessa. Perché di loro lo so che posso fidarmi ciecamente. Mentre è di me stessa e delle mie emozioni che non sono sempre così certa di potermi fidare.

Per esempio, un paio di settimane fa, ho scoperto un giorno che Daid5 Pontecorvo, che da qualche tempo frequenta con una certa assiduità il WCF, ha escogitato un bel marchingegno-trappola in grado di rapire all’istante chi lo sfiora con le dita. Una meraviglia, sulla carta, ma qualcosa che mi è piaciuto poco visto che una delle prime vittime è stata Lella. L’idea che la mia Lella si fosse trovata in una gabbia altrui, in una land che non conosceva, e soprattutto durante una settimana in cui io non esistevo, mi ha scossa in un modo che non mi aspettavo – tanto che in un successivo incontro con Daid5 l’ho, praticamente, diffidata dal riprovare anche solo a sfiorarla.

Poi sono partita per una settimana di vacanza. Andavo in una zona in cui potevo sporadicamente scaricare la posta ma sicuramente non collegarmi in-world, e sapevo che se avessi sentito qualche dialogo che mi turbava avrei perso il sonno sapendo di non aver alcun modo di intervenire. Ho deciso quindi di spegnere, temporaneamente, gli SPY di tutte le mie sub – quasi un esperimento per cercare di allentare il controllo. Se dovevo “non essere”, allora che davvero il mondo virtuale andasse avanti senza che ne sapessi niente e senza che, tornando, dovessi passare due giorni a districarmi fra tutte le registrazioni.

Immagine 1.jpgMa non avevo fatto i conti con Facebook. Qualche giorno dopo, sul profilo di Lella su Facebook appare questo suo post:

quando il “gatto” è in vacanza i topi ballano

ieri pomeriggio mentre stavo facendo il solito controllo a Winsconsin sono stata “casualmente” rapita da una persona che frequenta il penitenziario. E’ successo che “maldestramente” ho cliccato un oggetto che mi ha tippata direttamente in una gabbia fuori dalla SIM, raggiunta subito dopo dalla padrona di casa.

Dopo un primo momento di confusione sono stata invitata a mettermi a mio agio, mi ha offerto il te e gentilmente mi ha offerto “alloggio”. Lei è uscita subito dopo (RL) e mi ha lasciata a casa sua fino ad oggi pomeriggio quando e rientrata. Ho passato tutto ieri pomeriggio, la sera e oggi a pensare cosa potesse accadere al suo rientro e…….
Nel pomeriggio arriva, mi fa prendere una boccata d’aria e con mia somma sorpresa mi porta a fare un giro in gondola

Siamo rimaste un po a chiaccherare in questa SIM molto romantica

poi sono tornata a Winsconsin a sistemare un po di cose.
Queste sono le mie giornate movimentate aspettando il ritorno di Miss Win :)

LellaconDaid.jpgLellaconDaid2.jpgLe foto erano inequivocabili: la rapitrice era Daid5. Ho commentato la notizia un po’ più seccamente di quanto non mi sarebbe piaciuto, con un tono che non riusciva a sembrare distaccato quanto volevo:

Win Zinnemann Mmmm… credevo di aver parlato chiaro abbastanza, con quella persona. Vedo che non è bastato. È ora che il gatto torni a casa…
21 hours ago · Delete
Lella Demonia devo ammettere che è stata un po provocata (non è per prendere le sue difese). Magari lo ha fatto apposta per farsi rinchiudere e potermi stare vicina eheheheheheh
12 hours ago
Win Zinnemann So leggere fra le righe, Lella… fra le righe e le virgolette di frasi come << sono stata “casualmente” rapita>>… e più che con QUELLA persona, è soprattutto con un’altra, che devo fare un bel discorsetto.
11 hours ago · Delete
Lella Demonia so bene che sa leggere tra le righe…. avrò un fine settimana molto impegnato ….. e probabilmente anche la settimana prossima sarà impegnativa….. e sicuramente quella dopo ancora :))
11 hours ago

lellalast.jpglellastatua.jpglellastatua_001.jpgEro stata preda di un nuovo attacco di gelosia? Ma come posso provare gelosia per una come Lella? Non certo perché penso che non possa far gola a qualcun altro oltre che a me: credo anzi che ben difficilmente Lella possa non piacere (come Lorella, Jelena e Andromeda, del resto: lo so quanto sono fortunata ad averle), ma perché la mia fiducia in lei è assoluta. Però, se non di gelosia si trattava, da dove nasceva la mia difficoltà ad affrontare quella situazione in modo equilibrato? Me lo sono chiesto. Ho trovato una risposta possibile, anche se tutta da verificare.

Un comportamento del genere, da parte di una persona obbediente come Lella, posso interpretarlo solo come una richiesta di attenzione. Una cosa che ordinariamente mi rinnoverebbe la felicità di avere le chiavi del suo collare (vabbe’, anche quelle delle sue manette, delle cavigliere, della benda, del bavaglio, del… ci siamo capiti, insomma): dopo tutto sono stata assente davvero a lungo e chiedere attenzione è un modo per dire “Signora, mi è mancata”. Però tornare su SL per poche ore, sapendo di dover ripartire per un altro periodo di non esistenza, questo scatena in me una frustrazione profonda: il tempo, il tempo che non basta mai, nemmeno per prendersi il piacere di imporle qualche punizione estrema e dolce, di accorciarle il guinzaglio come senza dubbio meritano la sua sventatezza durante la mia assenza e qualcuna delle parole poco rispettose che mi ha indirizzato nei commenti a Si fa presto a dire.

Credo che il problema fosse questo. Se è vero che scollegarsi da Second Life significa non essere, collegarsi, essere, a volte può, scusate il gioco di parole, non essere abbastanza. Fra il ritorno dalla vacanza e la partenza per il lavoro ho avuto, in pratica, solo il tempo di parlare un poco con Lella e di farmi raccontare meglio quanto era successo: ossia che quello che sembrava un rapimento era in realtà un guaio in cui si era cacciata da sola, tocchicciando trappole di vario tipo fra cui una in grado di togliere alcuni capi di abbigliamento, mettendosi in condizioni di vulnerabilità di cui Daid5, sarebbe ingiusto non riconoscerlo, aveva saputo non approfittare.

lorella_last.jpgDovrei concludere, ma una conclusione forse non ce l’ho. Tutto sommato, anche se questi sono giorni di forzata lontananza, la posta riesco a seguirla con assiduità e seppure per momenti brevi riesco quasi sempre ad affacciarmi in-world abbastanza spesso da non avere la sensazione che il mio non essere mi faccia sgretolare fra le mani l’effimera realtà della mia Seconda Vita e di tutto quello che ci ruota attorno sempre più vorticosamente. Con queste premesse, tutto sommato, anche il non essere diventa un problema relativo. E l’angoscia metaforica del tasto quit è bilanciata dal fatto che quando esci da Second Life, alla fine, sai che con ogni probabilità potrai di nuovo riavviare il programma. E questo, dato che tutti sappiamo che in un futuro speriamo lontano c’è un tasto quit che ci aspetta, è uno dei regali più sottili che questo gioco infernale e bellissimo ci elargisce, giorno, dopo giorno, dopo giorno.

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